<<Avant tout, les artistes sont des hommes qui veulent devenir inhumains>>1

Sarà poi vero quello che diceva Apollinaire all’inizio del secolo scorso? Gli artisti, come bizzarri sciamani, si pongono come canali per qualcosa di più grande di loro?

Ebbene, non è raro trovare collegamenti tra arte contemporanea e pratiche legate ad una cultura di tipo ancestrale, tant’è vero che a Roma, nel 2011, presso la Sala Santa Rita, ha inaugurato una mostra dal titolo piuttosto esemplificativo di questo discorso, “Le Nove Porte: sciamanesimo e arte contemporanea” curata da Bruno Corà, Romano Mastromattei, Martino Nicoletti, Orfeo Pagnani e Galina Sychenko.

Tema fondante era il dialogo tra due universi, da una parte testimonianze appartenenti alle pratiche sciamaniche himalayane e siberiane, oggetti di uso magico, registrazioni sonore e immagini fotografiche di rituali e pellegrinaggi sacri mentre, dall’altra, opere di artisti contemporanei come Joseph Beuys (Krefeld, 12 maggio 1921 – Düsseldorf, 23 gennaio 1986) .

Obiettivo della mostra, indagare <<per quali ragioni si potessero avvicinare le identità dello sciamano e dell’artista>>2.

Di esempi di questo tipo ce ne sono diversi, senza dilungarci se ne potrebbe citare uno conosciuto a molti, Yves Klein (Nizza, 28 aprile 1928 – Parigi, 6 giugno 1962), che ha operato <<considerando l’entità del “vuoto”>>3, luogo, per così dire, dove ha compiuto una delle sue azioni più emblematiche, il salto, possibile similitudine con quello che viene definito il “volo” dello sciamano, viaggio senza distanza.

Prima ho citato anche Beuys, all’interno di questa mostra sono stati raggruppati diversi sui disegni e delle fotografie d’archivio rappresentanti alcune performance. In questo caso, anche a causa della sua particolare biografia (nel 1943 il suo aereo viene abbattuto in Crimea e viene salvato da un gruppo di nomadi tartari, che lo curano avvolgendolo nel grasso e in panni di feltro), i riferimenti provengono prevalentemente da culture di area siberiana, ed è possibile notare come l’elemento della slitta ritorni in opere grafiche come “Primeval Sledge” del 1960 dove l’iconografia si ispira alla simbologia del funerale tradizionale nanai, gruppo etnico dell’Asia orientale. La slitta in questo caso funge da ideale trasporto dello spirito verso il regno ultraterreno.

J. Beuys. Come spiegare i quadri ad una lepre morta. Galleria Schmela. 1965.

Una delle sue azioni più famose, “Come spiegare i quadri ad una lepre morta”, presentata alla galleria Schmela di Düsseldorf nel 1965 vede l’artista seduto su una sedia in un angolo della galleria con la testa ricoperta di miele sul quale aveva applicato foglie d’oro, in braccio regge una lepre morta. Alzandosi in piedi si avvicina, sempre tenendo fra le braccia la lepre, a diverse pitture avvicinandovici l’animale.

Una ritualità ciclica e misteriosa, forse anche disorientante, ma tuttavia profonda tanto che Stachelhaus, nel suo saggio “Joseph Beuys. Una vita di controimmagini” definisce questa azione <<quella in cui Beuys ha saputo esprimere con più semplicità ciò che lo (com)muoveva>>4.

Ora, si può essere d’accordo oppure no su questo, del resto è un’opinione, ma ciò che trovo davvero affascinante del suo lavoro è che il bagaglio di riferimenti viene utilizzato, come lui stesso afferma, per suscitare <<“controimmagini” negli spettatori, provocare qualcosa dentro di loro>>5, un qualche cosa che genera una << scarica di energia>>6.

Per quale fine? Per <<liberare energie mentali e spirituali che l’abitudine tende a soffocare>>7, è per questo motivo che, secondo Beuys, <<ogni uomo è un artista>>8; ciò significa che chiunque <<possiede facoltà creative che vanno scoperte e coltivate>>9, addirittura considera la creatività <<patrimonio del popolo>>10 e ciò significa che quest’attitudine deve essere estesa <<al lavoro umano tout court>>11.

<<La vecchia forma sclerotizzata deve essere trasformata in una figura vivente e palpitante che promuova lo sviluppo della vita, dello spirito e della mente>>12 per lui questa era la <<formula fondamentale dell’essere>>13, per un vero e proprio <<principio di mutamento>>14.

Le sue parole mi fanno tornare alla memoria ciò che diceva Eckhart Tolle riguardo alla natura della nostra mente e cioè che essa è composta di due elementi: forma e contenuto.

Si potrebbe dire che non è nient’altro che una struttura che si autoalimenta ripetendosi quasi sempre uguale a sé stessa (ecco la “forma sclerotizzata” di Beuys), il contenuto può variare ma la forma, la “struttura” appunto, non cambia.

“Io sono fatto così”, eccola di nuovo, la forma sclerotizzata! Quante volte l’abbiamo detto o lo abbiamo sentito dire, vero?

Ho scelto l’arte come metodo per interpretare la dinamica delle cose e la ricerca che porto avanti si ricollega a tutto quello che ho detto in precedenza perché fonda le sue basi sul tentare di veicolare messaggi come la trasformazione, intesa come unica costante naturale, o l’indagine di elementi microscopici, che mi sono utili per portare all’attenzione il fatto che ciò che chiamiamo realtà non ha comunque la connotazione che noi intendiamo; in questo modo cerco di far emergere in chi guarda un certo grado di consapevolezza .

L’intreccio continuo di ogni elemento e il fatto che ogni cosa è nell’altra senza alcun tipo di separazione reale se non quella che gli diamo noi,  sono gli obiettivi con cui cerco di far compiere uno “slittamento” allo sguardo, per cogliere dei significati che vanno al di là di ciò che in apparenza vediamo.

Figura 3 F. Catagnoli. Dalla serie “Relitti”. Rame, Solfato di Rame, Specchio. 2017

Scivolare “oltre”.

Le controimmagini di Beuys spiazzano chi le osserva ed è proprio da quel momento di disorientamento, di cortocircuito, che può verificarsi un’ espansione di consapevolezza, dove la mente razionale non riesce ad apporre istantaneamente un’etichetta, un’opinione, allora subentra l’intuizione, che è forma di comprensione diretta a un livello più profondo e va oltre qualsiasi impianto teorico.

Come Beuys genera queste sue controimmagini cercando di oltrepassare dei confini, anche nel mio modo di lavorare cerco appunto di prefiggermi l’obiettivo di generare questa sorta di “sguardo laterale” che può essere il principio di un mutamento.

Ciò che però tento di superare con il mio linguaggio è il rischio di concentrarsi troppo sulle suggestioni derivate dalle pratiche sciamaniche e poco sul significato che esse hanno; questo perché dopo essermi soffermato sullo studio di questa ritualità, ho compreso quanto questa possa essere intrinsecamente legata alla comunità cui lo sciamano appartiene. Si può dire che ovunque esista un'<<arte colta>>15 sarà affiancata ad <<espressioni di arte popolare>>16, che sono profondamente in relazione con la <<dimensione religiosa indigena>>17.

A differenza di altre forme, l’arte legata a questo tipo di cultura possiede un significato solo <<in relazione a uno specifico contesto rituale>>18, al di fuori di questo, <<l’arte sciamanica non esiste>>19 e anche quando dovesse esistere sarebbe del tutto svuotata di senso.

Ho speso qualche parola in più nel sottolineare questa attitudine che impregna il regno dello sciamanesimo per chiarire meglio la mia opinione in merito agli artisti che nella loro pratica fanno forti riferimenti a questo vocabolario nonostante queste premesse. E’ davvero necessario produrre opere che facciano fisicamente riferimento a queste pratiche pur sapendo questo? Non sarebbe forse più in linea con lo spirito di queste culture, dove ad ogni sciamano gli spiriti parlano in maniera molto personale, diversa da tutti gli altri, se ci concentrassimo semplicemente sul “senso” di queste pratiche, facendo fiorire qualcosa di diverso e completamente unico per ognuno di noi?

Non ho una risposta univoca e forse nemmeno esiste, ma come dice la Bhagavad Gita <<per colui che conosce Brahman i Veda non hanno maggiore utilità di quanta ne abbia un pozzo quando il terreno circostante è completamente allagato>>20.

Federico Catagnoli

 

Immagine di copertina F.Catagnoli. Particolare della serie “Relitti”. Rame e Solfato di Rame. 2017

[1] G. Apollinaire, “Les peintres cubistes. Méditations esthétiques.”(1913), prefazione di Dominique Dupuis-Labbé, Bartillat, Parigi 2013, pg.11.

[2] AA.VV. “Le Nove Porte. Sciamanesimo e arte contemporanea”, a cura di O. Pagnani, Exorma,  Roma, 2014, cit. pg. 37.

[3] ivi, cit., pg. 42.

[4] H. Stachelhaus “Joseph Beuys. Una vita di controimmagini” (1978), trad. ita. a cura di R. Gado Johan & Levi Editore, Monza, 2012, cit., pg. 125.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] ivi, cit., pg. 65.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem,

[12] H. Stachelhaus “Joseph Beuys. Una vita di controimmagini”, cit., pg. 65.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] AA.VV. “Le Nove Porte. Sciamanesimo e arte contemporanea”, cit., pg. 132.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] P. Yogananda “L’essenza della Bhagavad Gita”, a cura di M. G. Scalchi, Ananda Edizioni, Gualdo Tadino, 2006, cit., pg. 88.

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