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by Jerry Diamanti

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Pubblichiamo la trascrizione di un lungimirante intervento tenuto a fine Gennaio da una figura pubblica di ambito istituzionale rispetto agli “sviluppi” distopici in atto nel campo delle neuroscienze.

Dopo i ripetuti appelli di numerosi scienziati internazionali rispetto all’applicazione delle intelligenze artificiali alle armi da guerra automatiche e la penetrazione delle multinazionali biotecnologiche nel mercato miliardario generato dalla pandemia, attraverso la creazione digitale di materiale genetico sintetico inoculato nelle popolazioni come vaccino, riteniamo necessaria una attenta riflessione collettiva sulla traiettoria imboccata dalla nostra specie…

Giornata europea della protezione dei dati 2021
Convegno “Privacy e neurodiritti: la persona
al tempo delle neuroscienze”
28 gennaio 2021
Intervento di
Pasquale Stanzione
Presidente del Garante per la protezione dei dati personali

1. Un tempo complesso quale è il nostro difficilmente può essere contraddistinto in ragione di una sola, specifica caratteristica, che non ne esaurirebbe mai l’intrinseca ricchezza, varietà, eterogeneità degli aspetti e delle implicazioni. Ma tra i caratteri che connotano, in maniera più significativa e simbolica, nell’ora presente, il rapporto con la tecnica è, forse, il più rilevante, perché non tocca una sola dimensione del nostro vivere, ma le investe tutte, trasversalmente e alla radice, mutando lo sguardo prima ancora che il suo oggetto e delineando una diversa
antropologia e nuove domande di senso.
E se il potere della tecnica si era già manifestato, in tutta la sua pervasività, nel Novecento (la celebre lezione di Heidegger è del 1953), oggi assistiamo, con la rivoluzione del digitale e, soprattutto, dell’intelligenza artificiale, ad un passaggio epocale. Un passaggio in cui il superamento prometeico del limite finisce con il rovesciare, nel suo inverso, il mito antropocentrico dell’uomo dominatore della tecnica, considerata estensione del suo stesso Io.

Nel Frankestein di Mary Shelley l’uomo ricrea la vita da sé, recidendone ogni legame con il divino e finendo con il sottrarre alla natura il segreto della vita. L’ autonomia nella creazione carica l’uomo anche di una responsabilità nuova nei confronti di (e per ciò che) si è creato.
L’omicidio realizzato dalla creatura di Frankestein simboleggia, in fondo, i rischi del ‘dominio della tecnica’, evidenti mai come rispetto a una tecnologia, l’intelligenza artificiale, fondata proprio sulla mimesi (e persino il superamento!) della razionalità umana, capace di apprendere e, per questo, di autonomizzare buona parte della sua azione.
Non vi è, forse, esempio più plastico del capovolgimento del tradizionale interrogativo su cosa gli uomini possano fare della tecnica nel suo inverso: cosa la tecnica possa fare dell’uomo (Severino).

Ma nel solco delle – innumerevoli e sempre nuove -implicazioni ed applicazioni dell’intelligenza artificiale, quelle in ambito neuroscientifico e neurotecnologico aprono scenari davvero inesplorati, incidendo su un substrato, quello cerebrale, irriducibile a mera biologia, così forti essendo le connessioni tra attività neurologica, coscienza, identità.

E’, del resto, almeno a partire da Cartesio che l’identità, la soggettività, la stessa differenza dell’uomo (come singolo e come specie) viene identificata nel pensiero – il cogito ergo sum -, la cui proiezione organica è il cervello: limite invalicabile persino per il più coercitivo e totalitario dei poteri (che pur avesse tentato di orchestrare consensi e costruire culture), proprio perché correlato neurale della coscienza.
Ecco, quindi, che se la tecnica si spinge dove neppure il più pervasivo dei poteri statuali è potuto giungere, finisce con l’acquisire una potenza senza precedenti e con il superare il confine che nel pensiero greco separava l’ardire dalla hybris.

Tra i più significativi progetti neurotecnologici vi è quello (Neuralink) elaborato da Elon Musk per l’installazione, nel cervello, di chip che non solo consentiranno di contenere gli effetti di patologie neurodegenerative e di potenziare le capacità cognitive ma che, oltretutto, permetteranno di “salvare” i ricordi e“scaricarli su un altro corpo o robot”, amplificandoli o cancellandoli selettivamente.

2. E se, oggi, strumenti diagnostici avanzati quali la risonanza magnetica funzionale, possono decodificare diversi tipi di segnali cerebrali e correlati neurali di informazioni mentali, in un domani non lontano potranno accedere ai contenuti, leggendo i pensieri e influenzare così, addirittura, gli stati mentali e il comportamento, agendo direttamente sulla sfera neuropsicologica.
Queste ed altre forme di “brain reading”, fondate sull’analogia tra la decodificazione dei dati neurali e l’interpretazione funzionale, semantica, dei contenuti lasciano dunque intravedere la possibilità, almeno in un prossimo futuro, di analisi e “lettura” (ma anche condizionamento e persino predizione) di intenzioni, di emozioni, di asserzioni di verità o menzogna (il famoso “siero della verità” assurto a simbolo del divieto di utilizzo processuale di prove atipiche idonee a ledere la libertà morale della persona: art. 189 cpp).
Il rilevante incremento del potere epistemico di queste applicazioni neuroscientifiche e neurotecnologiche solleva alcuni interrogativi e riflessioni, su cui vorrei suggerire un confronto, essenzialmente su questi aspetti.

3. In primo luogo, va distinto l’uso strettamente terapeutico delle neurotecnologie dal loro utilizzo a fini di potenziamento cognitivo.
Positivo è indubbiamente l’uso che di tali tecniche si potrebbe fare, ad esempio, per la cura di malattie neurodegenerative, che va promosso secondo il diritto a fruire delle possibilità offerte dal progresso scientifico di cui all’art. 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.
Se tali innovazioni possano contribuire a contenere gli effetti invalidanti di determinate patologie, restituendo ai processi neurali la fisiologia e la funzionalità perdute, esse vanno certamente promosse, a tutela del diritto fondamentale alla salute, in tutta la complessità che ne caratterizza il significato (in tal senso sembra deporre anche il documento del Comitato Nazionale di Bioetica del 2010 “Neuroscienze ed esperimenti sull’uomo: osservazioni bioetiche”).

4. Ben più problematico è il ricorso a tali tecniche a fini di potenziamento cognitivo. Le attuali interfacce cervello-macchina per il controllo motorio già consentono non solo di amplificare capacità proprie dell’uomo, ma anche di fornirne ulteriori, trans-umane, quali il controllo telepatico di dispositivi.
Si tratta non tanto e non solo del “pendio scivoloso” e di una lettura rigorosa del principio di precauzione (Prometeo del resto è, etimologicamente, colui che pensa, oltre che vede in anticipo), quanto della definizione del limite oltre il quale non sia tollerabile andare, anche per non ingenerare nuove discriminazioni nei confronti di quanti potenziati non siano e non accettino di essere.
Del resto, non tutto ciò che è tecnicamente possibile è, infatti, anche giuridicamente lecito ed eticamente ammissibile, perché non possiamo fare tutto ciò che è possibile fare (Nietzsche).
Ogniqualvolta la scienza amplia la sfera delle possibilità, sorge il problema del katechon, del limite di ammissibilità e di sostenibilità etica, giuridica, sociale dell’innovazione.
Così, le neurotecnologie fondate sul brain reading in senso stretto e dunque con funzione essenzialmente analitico-descrittiva dei processi cerebrali, qualora dovessero effettivamente riuscire a decodificare i contenuti, avrebbero conseguenze principalmente sotto il profilo della trasparenza e visibilità del pensiero.
Esse attingerebbero, dunque, alla dimensione della segretezza del foro interno, la cui inaccessibilità è garantita in ogni ambito (dal processuale con il diritto al silenzio e l’esenzione dall’obbligo di dire la verità per l’imputato, all’elettorale con la segretezza del voto, sino al principio di materialità che esclude il mero pensiero, non estrinsecatosi in comportamenti sia pur solo verbali, dall’area del sanzionabile).

5. Le tecnologie capaci, invece, di apportare condizionamenti e modificazioni nel processo neurale, prospetterebbero invece un problema di libertà cognitiva come presupposto fondativo del diritto di autodeterminazione individuale.
Interventi di questo tipo sul processo cognitivo e finanche volitivo avrebbero, naturalmente, riflessi rilevantissimi in ogni campo della vita e del diritto ma, soprattutto, sul terreno della capacità di discernimento (quale parametro valutativo ormai centrale in ambito civilistico) e della stessa imputabilità penale, ben oltre il mero accertamento della suitas, della reale partecipazione psicologica del soggetto al fatto a lui ascritto.
Non si tratterebbe più soltanto del ricorso alle neuroscienze ai fini della valutazione della capacità d’intendere e volere dell’imputato, su cui le sentenze nei casi Bayout e Albertani segnano un punto di riflessione importante (1).

Per quanto indubbiamente problematica, infatti, persino l’assunzione delle lesioni organiche o funzionali della corteccia prefrontale tra i criteri valutativi dell’infermità mentale e, quindi, della capacità di discernimento, appare meno controvertibile di quanto sia invece la neurotecnologia invasiva.
Con essa, infatti, non si pone tanto il tema della “devianza genetica” e del “gene guerriero”, quanto della eterodeterminazione della condotta umana da parte dell’algoritmo, con la conseguente commistione, quasi indistinguibile, tra atti effettivamente imputabili alla volontà reale e non condizionata del soggetto e quelli, invece, ascrivibili all’algoritmo che quella volontà abbia alterato.
Il rischio, insomma, non è tanto e non è solo l’hackeraggio del cervello (prospettiva di un tale riduzionismo biologico da atterrire chiunque) quanto, prima ancora, la legittimità e l’ammissibilità etica di un intervento eteronomo sul processo cognitivo: il terreno sinora immune (sacer esto!) da ogni interferenza esterna.
La gravità di queste implicazioni sarebbe, naturalmente, ancora maggiore, laddove simili applicazioni neurotecnologiche venissero utilizzate al di fuori dell’ambito clinico (con le relative garanzie anzitutto deontologiche), come dimostra il programma d’interfacce cervello-computer elaborato da Facebook nel 2018, per condividere contenuti on-line direttamente con il pensiero, eludendo l’azione umana.
Saremmo, dunque, ben oltre il pur pervasivo neuromarketing, che segmenta il mercato secondo parametri psicometrici e modella l’offerta sulla base delle preferenze ascritte a ciascuno da sistemi di profilazione predittiva a carattere neuroscientifico.

6. La suggestione si combina pertanto con l’attitudine predittiva che è, del resto, uno dei tratti caratteristici della società dell’”anticipazione”, così definita per il pervasivo ricorso ad algoritmi capaci di prevedere il comportamento di ciascuno, secondo il profilo stilato sulla base del comportamento passato.
Riecheggia, in forma nuova, la distinzione tra persuasione, suggestione e soggezione psichica la cui insondabilità indusse la Consulta a dichiarare incostituzionale il reato di plagio nel noto caso Braibanti. Ma si profila una prospettiva ulteriormente riduzionistica, laddove il singolo è ridotto a mero elemento di un cluster, negandogli ogni residua individualità.
Con le neurotecnologie di brain reading ci si muove, naturalmente, su di un terreno ancor più scivoloso, in ragione dell’intervento diretto sul processo cognitivo e volitivo, per renderlo, in un futuro ormai prossimo, trasparente e almeno in parte manipolabile, con il rischio addirittura di uno sfruttamento a fini commerciali delle informazioni.
Si delinea, così, una congiunzione tra neuroscienze e capitalismo digitale – definita, con una crasi significativa, neurocapitalismo (Ienca) – idonea tuttavia a determinare implicazioni potenzialmente dirompenti sulla vita individuale e collettiva, di una pervasività tale da scardinare gli assunti fondativi dell’intero sistema delle garanzie costituzionali.

7. Siamo di fronte a una nuova antropologia, che esige una più profonda ed effettiva difesa della dignità dal rischio di un riduzionismo (non semplicemente biologico, ma) neurologico, capace di annullare conquiste di libertà ormai talmente risalenti e consolidate da essere ritenute di fatto acquisite.
Quale significato avrebbe, infatti, la tutela dell’intangibilità della sfera privata, in ogni sua articolazione, se, poi, i pensieri fossero leggibili e venisse così negata la riservatezza di quei “thoughts, emotions, sentiments and sensations” che già Warren e Brandeis, nel 1890, indicavano come fondamento essenziale del right to privacy? Può darsi realmente libertà se l’uomo, mediante la tecnica, diviene osservatore delle più intime percezioni, aspirazioni, volontà altrui (e persino proprie, se ignote)?
5
Analogo argomento può valere, del resto, per ogni altra garanzia democratica: dal diritto di difesa comprensivo, appunto anche del diritto al silenzio e dell’inammissibilità di prove lesive dell’autodeterminazione, al divieto di perizia criminologica, alla segretezza del voto, alla libertà confessionale, al pluralismo informativo, politico e via enumerando.
In uno scenario del genere – tutt’altro che asimoviano – emerge con forza l’esigenza di garantire, anche rispetto a tale nuova tipologia di rischi, l’inner world, il foro interno, l‘ Intimsphäre dalla cui libera formazione, gestione e sviluppo dipende ogni altra libertà.
Nessun esercizio di diritto o libertà potrebbe, infatti, mai dirsi tale se realizzato per effetto del condizionamento, anche soltanto indiretto o parziale, da parte delle neurotecnologie sul processo cognitivo. Né, del resto, realmente libera potrebbe mai ritenersi alcuna scelta o condotta realizzata nel timore della trasparenza, della leggibilità, financo della predittività dei propri pensieri, delle proprie intenzioni, delle proprie intime convinzioni, appunto.
Se, dunque, l’habeas corpus, nel proteggere fin nella sua corporeità la persona da atti coercitivi, ha rappresentato il fondamento dello Stato di diritto e l’habeas data – come diritto di autodeterminazione informativa – ha costituito il baricentro della tutela della persona nella società dell’informazione, l’habeas mentem dovrebbe allora rappresentare il fulcro di veri e propri neurodiritti.
Sia che si creino ad hoc, sia che siano desunti, con interpretazione evolutiva, dal sistema normativo vigente (come parrebbe preferibile), tali diritti – mai come in questo caso di libertà – rappresenterebbero l’argine essenziale rispetto alla deriva riduzionistica e neurodeterministica, scaturente da un uso improprio di queste innovazioni così dirompenti.
Intorno ai neurodiritti (e alla privacy, nella sua declinazione soprattutto informazionale) si dovrebbe delineare uno statuto giuridico ed etico essenziale in base al quale coniugare l’innovazione e il diritto a fruire dei benefici offerti dal progresso scientifico con la dignità della persona, intesa qui kantianamente come fine in sé.
La difesa dell’Io sovrano, per dirla con Musil, dovrebbe rappresentare il presupposto necessario per l’esercizio di ogni altro diritto di libertà, che esige anzitutto una libera e indipendente determinazione del soggetto. Il rischio, altrimenti, è che innovazioni scientifiche potenzialmente preziose per la cura di stati neurodegenerativi divengano lo strumento per rendere l’uomo, come ha scritto Foucault, un “caso”, una non-persona, l’individuo da addestrare o classificare, normalizzare o escludere.
Il dibattito di oggi, prima che risposte, vorrebbe suggerire domande su di un tema, quello dei neurodiritti, che segnerà il nostro futuro prossimo.

“L’albero della scienza non fu mai l’albero della vita”, asserisce il Manfred di Byron. Ha ragione, laddove intende che la vita contiene un’eccedenza che il riduzionismo scientifico non può comprendere; che la biografia non coincide con la biologia. Ma la scienza, se guidata dal diritto e dall’etica, può, restituendo fisiologia nella patologia, rendere la vita più umana e persino più giusta.

(1) In cui, ai fini della valutazione del vizio parziale di mente dell’imputato, sono stati effettuati imaging morfologico e cerebrale e test di genetica molecolare, finalizzati a evidenziare anche l’eventuale substrato biologico dei disturbi del comportamento, come se il delitto potesse ritenersi “scritto nei geni” del reo.

 

Link alla fonte GPDP

Photo by Bret Kavanaugh

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    Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.

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    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

    www.claudiapanico.com

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    Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.

    Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.

    Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.

    Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.

    Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.

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    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

    Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.

    Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.

    LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA

    Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.

    Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.

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    ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO

    Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.

    E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)

    Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.

    Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.

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    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

    www.claudiapanico.com

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  • Per rimanere in contatto con noi e ricevere informazioni sugli ultimi articoli, video, webinar ed iniziative pubbliche che proponiamo, lascia qui la tua email

    Sorry, this entry is only available in Italian.

  • Una pratica che incontra oriente e occidente

    Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.

    Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.

    Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.

    Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.

    Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.

    GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA

    Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.

    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

    Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.

    Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.

    LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA

    Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.

    Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.

    Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.

    ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO

    Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.

    E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)

    Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.

    Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.

    La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.

    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

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    Sorry, this entry is only available in Italian.

  • Una pratica che incontra oriente e occidente

    Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.

    Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.

    Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.

    Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.

    Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.

    GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA

    Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.

    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

    Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.

    Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.

    LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA

    Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.

    Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.

    Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.

    ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO

    Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.

    E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)

    Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.

    Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.

    La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.

    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

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