Lo Yoga non è una via di fuga.

È una chiamata all’azione.

Nella società che viviamo dove fascismi e razzismi vengono normalizzati, troppi yogi restano in silenzio, avvolti nelle loro bolle di comodità indifferenti.

 

Ma a cosa ci invita lo yoga?

 

Ahimsa ci insegna la non violenza.

Siamo davvero non violenti se permettiamo che sistemi oppressivi si diffondano senza contrastarli?

 

Satya ci chiede di dire la verità. Usiamo la nostra voce per dare un nome all’ingiustizie, o preferiamo essere complici silenziosi?

Asteya ci ricorda di non rubare. E le vite, le dignità e le terre rubate alle soggettività marginalizzate?

Brahmacharya ci chiede un giusto utilizzo dell’energia. Stiamo incanalando la nostra pratica nello smantellamento dei sistemi oppressivi o in una forma di benessere egoistico autolenitivo?

Aparigraha ci esorta a lasciare andare. Possiamo liberarci dall’attaccamento al privilegio, al comfort, a una pavida neutralità?

 

Lo yoga non è solo ciò che accade sul tappetino.

È il modo in cui siamo in relazione con animali umani e non umani, compreso tutto ciò che ci circonda.

Gli otto rami dello Yoga: Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana e Samadhi rappresentano il sentiero per persone generose e consapevoli.

Essere praticanti yoga è discernere chiaramente (Viveka), agire coraggiosamente (Virya) e camminare in linea con il dharma.

Soprattutto quando è scomodo.

Se la nostra pratica non sviluppa una coscienza critica esortandoci all’azione contro le ingiustizie di ogni tipo, si riduce ad un mero pacifismo performativo per privilegiati.

Alzati. Parla. Agisci.

Essere praticanti yoga è abilità nell’azione per la collettività.

 

 

 

 

Rielaborato dal Gruppo Yoga Solidale da un testo di Marissa the yogini

Foto di  Dane Wetton

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