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by Alberto Paolucci

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Non esiste un bambino teorico
separato dalle relazioni e dal suo contesto.
C’è sempre un bambino

“soggetto in relazione con”

L’ Infant Research negli ultimi anni si è interessata sempre di più allo studio dei processi diadici da un punto di vista relazionale. In seguito a studi condotti da alcuni ricercatori (Stern, Beebe e Lachmann, Tronick e altri) il bambino da “Essere completamente indifferenziato” diviene un “Essere attrezzato”, dotato di risorse per mettersi in relazione con il suo ambiente. Queste ricerche dimostrano che “le interazioni tra madre e bambino vengono co-costruite da entrambi, attraverso il volto, la voce, e l’orientamento spaziale”.(2)

Dai dati sperimentali3 emerge che il bambino, in relazione con la madre, si autoregola continuamente: egli reagisce di fronte ai fallimenti di sintonizzazione; fronteggia, entro certi limiti, la relativa disponibilità materna; e sa stare con soddisfazione per conto suo, nel momento in cui le attività con la madre hanno termine. Il bambino risulta, quindi, in grado di agire in una sequenza di stimoli, mantenendo coerente il suo stato di attivazione interna, a seconda delle necessità.

Tali ricerche descrivono l’origine delle capacità relazionali e dei modelli di comunicazione non-verbale che continuano ad operare in modo simile anche nell’adulto.4

Le suddette ricerche, per finire, attestano che “il comportamento, l’attivazione fisiologica e lo stato soggettivo sono aspetti dello stesso fenomeno e si organizzano simultaneamente nel processo interattivo”.5

Secondo la tesi proposta da Beebe e Lachmann, la regolazione interattiva (e dunque relazionale) dei processi diadici, riorganizza signifi­cativamente l’esperienza interna dei soggetti e i loro processi di autore­golazione. Questo accade tanto nelle interazioni tra terapeuta e paziente, quanto in quelle tra adulto e bambino. Viene, dunque, confermata l’importanza della relazione come luogo della cura, come luogo in cui “…facendo esperienza dell’altro facciamo esperienza di noi stessi…”6 o, come accade nei più profondi interventi psicoterapeutici, attraverso l’esperienza dell’essere-con l’altro, cambiamo l’esperienza di noi stessi nel mondo.

 

  1. Infant Research: relazione, corpo e identità

 

La sintonizzazione tra il bambino e il care-taker permette l’apprendimento di modelli relazionali. Durante questo processo avviene una vera e propria impregnazione sensoriale reciproca: visiva, uditiva, cenestesica che coinvolge, dunque, il corpo. In seguito alle esperienze vissute e rivissute con sfumature emotive diverse, il bambino sceglie una propria personale configurazione di comportamenti, un proprio modo di viversi, vedersi e proporsi nelle relazioni. Tale configurazione è riconoscibile e distintiva del soggetto, del suo modo di essere nel mondo. Questo processo avviene tramite un riferimento continuo, da parte del bambino, all’autoregolazione del sé.6

 

    1. Corpo e relazione

Il corpo riveste un ruolo fondamentale nello strutturarsi delle modalità di relazione nel bambino. Prendendo come riferimento la storia di ogni individuo è chiaro come l’interazione madre-bambino si manifesta, fin da subito, come un “corpo a corpo”: nella vita endouterina, nell’esperienza della nascita, nei primi contatti con il care-taker. In tutte queste esperienze il fisico e la sensomotricità sono in primo piano. La disponibilità, la modalità, la qualità, l’intensità, l’affidabilità e variabilità del contatto sono aspetti fondativi dell’esperienza relazionale e, al tempo stesso, un universo ricco di stimoli vitali indispensabili per la crescita di un essere umano. Ne deriva che la salute e il buon funzionamento orga­ni­smico ed ecologico, così come la disfunzionalità e la patologia, si sviluppa­no nel rapporto corporeo tra il bambino e i suoi care-takers7. A partire dalle prime esperienze di relazione, il bambino plasma i propri schemi relazionali e le proprie reti neurali. Siegel8, a questo proposito parla di ‘mente relazionale’.

Nel rapporto con il mondo, l’organismo è la storia relazionale incarnata del soggetto. E, come tale, ne custodisce le tracce.

Per il bambino, l’organismo dà significato e veicola tutto il mondo esterno. Come afferma Liotti “Il cervello e la memoria passano nel corpo e sono nel corpo. Il sé e la coscienza sono inscindibili dal corpo e dalla nostra percezione, cognizione, emozione con/nel corpo. Il corpo è nella relazione e la relazione è emotivamente connotata”.9

Ecco che l’organismo è il tramite relazionale tanto nelle relazioni primarie quanto in quelle successive, inclusa la relazione terapeutica.

La relazione, dunque, è un ponte che, saldando il corpo materia-funzionalità e il corpo soggetto-emozionale, permette di raggiungere il corpo vissuto, il corpo investito di affetti e collocato nella storia del soggetto.10

Come dice Binswanger, “l’uomo è sempre corpo e sempre vive corporalmente e permanentemente, con il corpo parla o si esprime”.11

Processi mentali, motori, tonici e affettivi risultano, così, stretta­mente legati, dal momento che nascono, crescono e si svolgono all’interno delle relazioni.

 

    1. Corpo e relazione: ritmo ed emozione

 

Il modo in cui un genitore reagisce alle emozioni del bambino, nel tempo, assume forme, ritmi e aspetti più articolati rispetto ai primi giorni e mesi di vita. La madre può utilizzare con il figlio diversi schemi interattivi: si sintonizza con i suoi stati emotivi, li rispecchia, li imita e cerca di comprenderli; oppure ne abbassa il tono e li smorza; o, ancora, li amplifica, alza il ritmo, l’energia e l’eccitazione. Può modificare questi schemi in modo più o meno intenzionale. Il bambino impara, dunque, nella relazione con il care-taker, a distinguere i diversi tipi di emozione. Questo implica sviluppare la capacità di comprendere, sentire, differen­ziare e nominare l’emozione propria e dell’altro.12

Nella coppia si sperimentano diversi ritmi relazionali. È qui che si imparano e si definiscono i motivi preferiti, i temi della relazione che consentono tanto sintonia, condivisione e vicinanza, quanto spazi di differenziazione. Qui si imparano anche le “regole implicite”, ossia come sottointendere o evitare i motivi proibiti o sgraditi. È proprio intorno alle aree di evitamento, di fragilità e di difficoltà dei care-takers che il bambino impara altre modalità relazionali e trova nuovi spazi consentiti. Scopre, ad esempio, che alcune reazioni naturali devono essere evitate, apprende a reprimerle o ad utilizzarne altre in sostituzione, con le quali riesce a soddisfare, almeno in parte, i propri bisogni e a proteggersi da un eccessivo senso di frustrazione. In tutto questo, anche il corpo va incontro ad un processo di adattamento. Inibisce alcune sensazioni ed emozioni e ne accentua altre. A proposito del respiro, ad esempio, può imparare a contrarlo e a limitare il movimento direzionato alla soddisfazione dei suoi bisogni.

Nel rapporto originario il bambino apprende, inoltre, che i suoi gesti e le sue azioni hanno effetto oppure no sull’altro. Il bambino sviluppa, così, un repertorio di schemi motori che strutturano il suo campo intersoggettivo.13

Nella prima infanzia ci sono molte occasioni in cui la coppia si misura nel definire la disponibilità, i limiti e i ritmi del reciproco coinvolgimento: le regole vengono definite dalla coppia stessa. Nella negoziazione dei propri bisogni con l’organismo dell’altro e con i modi di relazione di cui il corpo è investito, il bambino apprende molto su di sé (come agente e come recettore) e sull’altro (come agente e come recettore). Il bambino sente, sperimenta e impara un proprio potere nel recepire e direzionare eventi che riguardano sé e l’altro. Sperimenta, o meno, piacere e vitalità nel tono energetico del corpo, così come efficacia e potenza o, viceversa, inefficacia e impotenza, come elementi centrali nel riconoscimento di sé.14

Nella danza di gesti, movimenti, sensazioni e parole, passano messaggi e attribuzioni, permessi e ingiunzioni che orientano e costrui­scono in modo unico e creativo le scelte relazionali del bambino.

 

    1. Fallimento relazionale e processo di riadattamento: la relazione che cura

 

Con il care-taker, il bambino fa anche esperienza del fallimento relazionale.15 Questa esperienza lo porta a riadattarsi e imparare. Può imparare prima a proporsi e poi a ritirarsi. Può memorizzare il ritiro come strategia da utilizzare quando si ripresentano situazioni simili o vissute come tali.

Il corpo ricorda l’esperienza dell’inefficacia, del fallimento relazionale, la fa propria, la interiorizza e ripete il ritiro in funzione protettiva, anche in un’esperienza nuova, dove forse potrebbero esservi esiti diversi. Il corpo ricorda e apprende.

Nuove esperienze relazionali introducono nuove possibilità, possono aprire nuove vie. Abbiamo a nostra disposizione anche una certa plasticità neuronale che permette di ripercorrere tracce lasciate da esperienze traumatiche e rivedere alcune delle vecchie esperienze, introducendovi nuovi significati.16

La relazione, dunque, come luogo della cura.

Come spazio terapeutico in cui, nel prendersi cura dell’altro e di sé attraverso l’altro, si apre la strada a nuove possibilità: per risintonizzare i circuiti emozionali con le esperienze vitali, ricontestualizzando le espe­rienze passate alla luce di quelle presenti.

L’esperienza relazionale permette di dare alla corporeità e alle esperienze vissute nella relazione un diverso senso e un altro tempo, permettendo nuove configurazioni di esperienze attuali. Il corpo diviene risorsa, spazio intermedio dove giocare e ri-giocare l’esperienza relazionale. Penso qui al corpo-leib, esperienza vivente, gesto, parola e suono, dei soggetti in relazione nello spazio analitico. Luogo dove ‘risignificare’ l’esperienza del soggetto e trarne nuove alchimie”.17

  1. I neuroni specchio

 

I contributi dell’Infant Research e le recenti scoperte scientifiche sull’esistenza e la funzione dei neuroni specchio, segnano il significativo passaggio dall’intrapsichico all’intersoggettivo.

Come abbiamo visto, l’Infant Research testimonia la presenza di una “mente che nasce relazionale”.

I neuroni specchio danno ulteriore fondamento scientifico a quanto osservato nelle interazioni madre-bambino.

I neuroni specchio sono neuroni situati in prossimità dei neuroni motori, che si attivano non appena un soggetto si limiti ad osservarne un altro che compie una qualsiasi azione (ad esempio correre). Lo schema di eccitazione indotto nei neuroni specchio dell’osservatore imita esatta­mente lo schema motorio che egli stesso attiverebbe se si trovasse a compiere quella stessa azione. Le informazioni visive che riceviamo quando osserviamo le azioni degli altri vengono rappresentate, grazie all’attività dei neuroni specchio, nel nostro cervello, in schemi motori equivalenti. “Facciamo esperienza dell’altro come se stessimo eseguendo la sua stessa azione, provando la sua stessa emozione, emettendo le sue stesse voci o percependo il suo stesso contatto fisico. Attraverso questa partecipazione alla vita dell’altro, possiamo comprenderlo e sentirlo in noi stessi, in particolare riguardo alle sue intenzioni e ai suoi sentimenti”.18 Grazie a questi neuroni possiamo sentire nel nostro corpo e percepire nella nostra mente l’esperienza che l’altro sta facendo.

Questa scoperta porta a pensare che siamo dotati di una sorta di canale e-motivo preferenziale che ci mette in comunicazione diretta con i nostri simili, ci fa entrare in risonanza con loro, ci fa partecipare ai loro vissuti e condividere i nostri. Il nostro sistema nervoso sembra predi­sposto a ‘connettersi’ con quello degli altri esseri umani in modo da poterne fare esperienza, come se fossimo dentro la loro stessa pelle.

Da queste considerazioni emerge un mondo intersoggettivo in cui le nostre menti non sono più così indipendenti, isolate e separate. I confini tra noi e gli altri, seppure ancora presenti, appaiono più permeabili.

Stern afferma che “tutto ciò che pensiamo, sentiamo e desideriamo è influenzato dai pensieri, dai sentimenti e dalle intenzioni che percepiamo negli altri, in un dialogo incessante. La nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri che io chiamo matrice intersoggettiva”.19

 

  1. Conclusioni

 

Da quanto emerso nell’Infant Research e dalle scoperte sui neuroni specchio, appare evidente che l’individualità non esiste, se non in rapporto all’intersoggettività e quindi all’interno di una ‘relazione con’. La relazione con l’altro diventa sede tanto dell’autoregolazione organismica, quanto dell’interazione; l’io e il tu in relazione trovano senso e, interagendo, danno origine a schemi relazionali co-creati.

Attraverso la relazione, il bambino costruisce una identità propria che si incarna ed esprime nel corpo. Alla luce di quanto testimoniato dalle ricerche, la relazione è prima di tutto una relazione tra corpi. Il corpo si plasma. Il corpo ricorda. Il corpo apprende.

Nuove esperienze relazionali aprono nuove possibilità, nuove vie. Corpo, dunque, come luogo di nuove esperienze relazionali, di nuove opportunità.

Paola Battocchio

paolabattocchio76@gmail.com

1 S. Ligabue, Modi della relazione. Stati dell’Io, copione, corpo, “Quaderni di psicologia, Analisi Transazionale e scienze umane”; 2004; 41.

2 B. Beebe e F.M. Lachmann, Infanti research e trattamento degli adulti. Un modello sistemico-diadico delle interazioni, Raffaello Cortina Editore, 2003, pagg. XIII-XIV

3 D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri; 1987

E. Tronick, Le emozioni e la comunicazione affettiva nel bambino, Riva;1989.

4 B. Beebe, F.M. Lachmann, op. cit.

5 B. Beebe, F.M. Lachmann, op. cit. pag. 36

6 B. Beebe, F.M. Lachmann, op. cit. pag. 36

7 S. Ligabue, op. cit.

8 D.J. Siegel, traduzione italiana La mente relazionale, Cortina, Milano 2001, citato in S. Ligabue, op. cit.

9 G. Liotti, La dimensione interpersonale della coscienza, NIS, Roma 1994, (3° ristampa, Carocci editore, Roma 2000), citato in S. Ligabue, op.cit.

10 Ibidem.

11 Binswanger cit. in E. Borgna, Le metamorfosi del corpo, in Galimberti U., Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983., In S. Ligabue, op. cit.

12 S. Ligabue, op.cit.

13 Ibidem.

14 Ibidem.

15 Ibidem.

16 Ibidem.

17 Ibidem.

18 D. Stern, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Raffaello Cortina Editore, 2005, pag.66.

19 Ibidem, pag.65

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    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

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    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

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    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

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    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

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    Claudia Panico

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  • Una pratica che incontra oriente e occidente

    Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.

    Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.

    Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.

    Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.

    Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.

    GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA

    Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.

    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

    Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.

    Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.

    LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA

    Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.

    Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.

    Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.

    ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO

    Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.

    E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)

    Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.

    Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.

    La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.

    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

    www.claudiapanico.com

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    Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.

    Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.

    Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.

    Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.

    Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.

    GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA

    Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.

    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

    Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.

    Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.

    LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA

    Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.

    Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.

    Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.

    ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO

    Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.

    E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)

    Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.

    Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.

    La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.

    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

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