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by Alberto Paolucci

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Nella cultura occidentale è prassi identificare noi stessi con il nostro corpo. Eppure, ammettiamolo, noi non siamo il nostro corpo. Se guardiamo dentro la pelle, ciò che troviamo è ben lontano da quello che siamo. L’orrore che spesso accompagna lo smembramento dei corpi umani è probabilmente dovuto a questa radicale differenza tra ciò che siamo e ciò che troviamo dentro di noi. Certo, il corpo serve. È innegabile. Probabilmente, senza il corpo non esisteremmo. Ma possiamo dire che ciò che si trova dentro il nostro corpo, questo insieme di organi legati insieme da ventricoli, sacche membranose, reticolati di vasi sanguigni e fasci nervosi, sia effettivamente simile a ciò che noi sentiamo di essere, ogni giorno, ovvero un insieme di sensazioni, pensieri, emozioni? No.

Eppure, come dicevo, la cultura occidentale ci ha posto davanti a un’alternativa apparentemente obbligata: da una parte l’anima immateriale e dall’altra il corpo.

Ovviamente, l’idea di anima è attraente perché soddisfa una nostra fondamentale intuizione esistenziale: noi non siamo il nostro corpo. Non ci sentiamo come il nostro corpo. Noi abbiamo un corpo, non lo siamo. Quando sezioniamo un cadavere e guardiamo dentro la macchina biologica, non troviamo niente che corrisponda al nostro esistere. Organi, nervi, vasi sanguigni sono tutti meccanismi meravigliosi, ma non hanno niente di simile alla nostra esperienza quotidiana. Inoltre, da un punto di vista empirico, chi ha mai visto un’anima? Anche la versione moderna dell’anima, ovvero la mente cosciente – a volte declinata in termini computazionali a seguito dello sviluppo di discipline come l’intelligenza artificiale – non è molto meglio. Chi ha mai visto una mente? La mente, in fondo, è la versione laica della anima e, da un punto di vista empirico, è altrettanto elusiva.

L’altra alternativa non è meglio: il corpo. Come accennavo prima, nessuna delle caratteristiche del corpo corrisponde, neppure vagamente, a quelle di noi stessi: sangue e neuroni vs. sensazioni e pensieri. Credere di essere corpo è un atto di fede non diverso dal fatto di credere di essere spirito. Eppure, soprattutto in un’ottica scientifica, il corpo sembra l’unica possibilità e quindi, molti concludono: “prima o poi ci sarà una spiegazione valida!” Questa attesa messianica è stata, finora, disattesa. Se guardiamo alla parte del corpo che più di tutte dovrebbe coincidere con noi stessi, ovvero il cervello, nonostante le immense risorse impiegate, vediamo subito che i neuroni non hanno nessuna delle caratteristiche delle nostre sensazioni, emozioni e pensieri. Ovviamente il corpo può essere oggetto di esperienza. Io posso avvertire la pienezza dello stomaco dopo un pasto troppo abbondante, posso avvertire l’acido lattico che rende i miei muscoli legnosi dopo una maratona, posso dolermi di due vertebre che premono tra di loro, posso sentire la lingua sui denti, il calore del sole sulla pelle. In tutti questi casi, tuttavia, il corpo è semplicemente un altro oggetto, cui noi siamo molto affezionati ma con il quale non siamo identici.

Sebbene il fatto di identificarsi con il corpo abbia profonde radici culturali, non è mai stato dimostrato in modo scientificamente inoppugnabile. Quindi possiamo dubitarne. Anzi dovremmo! Cito solo due fattori che hanno contribuito a diffondere questa idea (ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo). Un primo fattore è di carattere storico religioso: una comprensibile reazione al rifiuto del corpo di certa tradizione giudaico-cristiana – vogliamo ricordare la nozione di corpo elaborata da alcuni padri della chiesta come San Girolamo? Era inevitabile che tanto accanimento producesse una reazione uguale e contraria. Un secondo fattore, più di natura filosofico-speculativa, è stato il fallimento del dualismo cartesiano. Il filosofo francese, dopo aver monopolizzato la filosofia europea per quasi un secolo è diventato il bersaglio preferito sia dei filosofi che degli scienziati al punto che oggi qualsiasi neuroscienziato si sente in dovere di fare una professione antidualista e ottenere così un patentino di pensatore moderno. In realtà, Cartesio si era mosso con grande lucidità e aveva cercato – con la ghiandola pineale e altri meccanismi che oggi possono apparire ingenui – di dare fondamento scientifico a un fatto: la diversità tra noi e il corpo; tra noi e il cervello.

Da quando Cartesio è stato, filosoficamente, abbattuto, molti autori occidentali si sono precipitati a lanciare il loro sasso alla statua del dittatore, ormai sconfitto, nella pubblica piazza. Questi sassi concettuali non hanno però costruito nessun nuovo edificio. La natura della mente e di noi stessi è rimasta misteriosa quanto se non più di prima. Almeno Cartesio aveva distinto la mente dal corpo. Dopo di lui, abbiamo cercato di spiegare l’impossibile: la transustanziazione dei neuroni in pensieri.

Quindi, se noi non siamo immateriali e non siamo nemmeno il nostro corpo, che cosa siamo? Come accennavo all’inizio, il fatto di essere fisici, non è qualcosa di deprecabile. Il termine fisico indica semplicemente ciò che esiste e che fa parte, democraticamente, dell’insieme di tutte le cose. è un fatto. I miei pensieri producono effetti nel mondo e sono, a loro volta, prodotti o influenzati da fatti del mondo, quindi devono essere nel mondo. Eppure nel corpo, per quanto scaviamo, non troviamo niente di simile alla nostra esperienza. Troviamo solo cellule, membrane, acidi nucleici, zuccheri, sostanze di scarto. Esiste un’alternativa? Sì, e questa alternativa si trova comodamente dentro il dominio della fisica.

In sintesi l’ipotesi è che voglio prendiate in considerazione è che la cosa che siamo sia proprio il mondo fisico che circonda il nostro corpo. Questo mondo – che chiamerò mondo relativo – è fatto di tutti quegli oggetti che, in ogni istante, esistono relativamente al nostro corpo. Faccio un esempio per rendere tangibile e comprensibile l’idea che propongo.

In questo momento, mentre sto scrivendo questo contributo, mi trovo sulla spiaggia di Lavagna. È settembre inoltrato ma un benigno sole autunnale scalda la distesa di ciottoli di calcare e ardesia. Davanti ai miei occhi, il mare azzurro luccica. Non c’è nessuna nuvola e il sole campeggia sicuro di sé al centro della volta celeste (oggi particolarmente celeste). La linea dell’orizzonte è interrotta da rare vele che si spostano con serena tranquillità. Tutto quanto ho descritto è quanto in questo preciso momento è parte di me. Se io guardo dentro di me e descrivo il mio essere in questo istante, trovo il mare, le vele, il sole e l’azzurro del cielo. Sicuramente non trovo neuroni, vasi sanguigni, ventricoli e membrane cellulari. Di che cosa sono fatto in questo momento? Sono fatto dal mare o dai neuroni? L’ipotesi è che, hic et nunc, io sia fatto dal mondo. Sono una cosa fisica, ma questa cosa non è il mio corpo, bensì il mare, il cielo, i sassi di calcare e ardesia.

E il mio corpo? Non è nulla? Non ha un ruolo? Sì, che lo ha. Il mio corpo definisce i confini degli oggetti che sono me stesso. Il mio corpo è quell’oggetto relativamente al quale esiste il mondo che io sono; una collezione di oggetti fisici che esistono relativamente al mio corpo. Per evitare equivoci, vi chiedo di fare uno sforzo pignolo nel distinguere questi tre termini che normalmente usiamo in mondo confuso: io (o me stesso), il mio corpo, il mondo.

Confrontiamo il punto di vista tradizionale con il nuovo. Secondo la scienza, il mio corpo percepisce il mondo e, in qualche modo, produce la cosa che chiamo io fatta di sensazioni, percezioni e pensieri. Il corpo è – o produce – me. Secondo il nuovo punto di vista, il mio corpo definisce un mondo relativo che è identico con me stesso. Io sono il mondo relativo che è fisicamente fuori del mio corpo (non è fuori di me!). Io sono identico con tale insieme di oggetti relativi. Il mondo è me.

Una prima obiezione che, a questo punto, è spesso sollevata è che il corpo non è il mondo. Ma io sono, ovviamente, d’accordo! Il mio corpo è qui, sull’asciugamano, mentre, il mare si trova a qualche decina di metri. Corpo e oggetto sono evidentemente distinti (a eccezione dei casi in cui l’oggetto è il corpo, come quando lo stomaco è pieno, ma lasciamo perdere). Tuttavia, l’obiezione è interessante perché fa capire che cosa rende ostica l’ipotesi avanzata qui: culturalmente ci identifichiamo con il corpo e quindi continuiamo istintivamente a confondere corpo e noi stessi. Diciamo “noi siamo sull’asciugamano”, mentre sull’asciugamano c’è solo il corpo. Pensiamo “mi sto abbronzando”, mentre è la pelle che si abbronza, non me.

Una seconda frequente obiezione è che, se noi siamo fatti dagli oggetti esterni — il mare e il cielo — non si capisce come questi oggetti sono percepiti dal corpo. Ma via! Questa è ancora l’inerzia concettuale cui facevo riferimento prima. Se noi siamo il mare, il mare non deve arrivare al corpo. Il mare può continuare a essere il mare. Noi siamo già dove si trova il mare, non dobbiamo arrivare al corpo, noi siamo già la cosa di cui la nostra esperienza è fatta. La nostra mente non contiene il mare, la nostra mente è il mare. Quando vediamo mare, siamo mare; quando vediamo azzurro, siamo azzurro; quando vediamo luce, noi siamo luce.

L’identità tra noi e le cose del mondo di cui facciamo esperienza risolve il dualismo che ha tradizionalmente contrapposto mente e mondo generando una serie di proposte di soluzione che non hanno fatto altro che complicare la faccenda — intenzionalità, rappresentazione, qualia, e cose del genere; mostri concettuali generati per salvaguardare un assunto sbagliato.

Una terza obiezione è che il mondo è quello che è mentre ciascuno di noi lo percepisce in modo diverso, e quindi ognuno di noi vive in una versione soggettiva e mentale, generata e conservata dentro la nostra mente – che in qualche modo sarebbe a sua volta dentro il nostro cervello e quindi dentro il nostro corpo. Questa obiezione è sconfitta grazie alla natura relativa degli oggetti che ci circondano. Torniamo alla striscia di luce che il sole riflette sul mare. Quella striscia esiste solo relativamente al mio corpo. Se mi trovassi in un altro posto, vedrei la striscia in un’altra zona; vedrei, cioè, un’altra striscia. La striscia è relativa. Il fatto che gli oggetti che io vedo, pur essendo esterni al mio corpo, siano relativi al mio corpo è sufficiente per spiegare perché ognuno di noi veda un mondo diverso. Ognuno di noi è identico a un diverso mondo relativo perché ognuno di noi ha un corpo diverso e quindi definisce e fa esistere un diverso mondo relativo. È come la velocità. Su una autostrada, ogni veicolo ha velocità relative diverse rispetto a ciascun degli altri mezzi in movimento. Ma la relatività fisica non implica una soggettività mentale. La relatività fisica spiega la diversità dei mondi nei quali viviamo senza doverli trasformare in piccole repliche soggettive generate dentro i corpi.

La proposta è che noi siamo identici al mondo relativo rispetto al nostro corpo. Che cosa è esattamente questo mondo? Consideriamo di nuovo l’esempio della spiaggia. In questo momento quando guardo avanti vedo che, proprio davanti a me, la superficie del mare luccica fino all’orizzonte. È il riflesso del sole. È un caso che questo riflesso sia esattamente centrato rispetto alla posizione del mio corpo sulla spiaggia? Ovviamente no. In realtà tutta la superficie del mare sta luccicando nello stesso modo, da ponente a levante. Quindi io non vedo il mare come è in assoluto, ma il mare come è relativamente alla posizione del mio corpo. In generale questo è vero per qualsiasi oggetto sia parte di me (o della mia esperienza). I sassi esistono nella mia esperienza (e nel mio mondo) nella misura in cui esistono relativamente al mio corpo. Per esempio, esistono come barriere per la luce ma non come ostacolo ai neutrini. Relativamente ad altri sistemi fisici i sassi hanno altre proprietà che non sono parte del sasso che popola il mio mondo. Come il riflesso che io vedo sul mare è, fra tutti i possibili riflessi, l’unico che esiste rispetto al mio corpo, così ogni oggetto che è parte della mia esperienza è un oggetto che esiste relativamente al mio corpo (o qualche parte di esso).

Pensate a voi stessi, guardate dentro di voi. Che cosa trovate? Il mondo o l’interno del vostro corpo? Non siete forse fatti delle persone che vi circondano, di chi amate, del vostro ambiente, degli oggetti che vi circondano, della vostra città, le vostre storie e vicende? Di che cosa siamo fatti noi? Di cellule o del mondo? Mi è persino difficile capire perché tanti oggi si siano lasciati convincere di essere un cervello.

Ovviamente, riconoscere di non essere il nostro corpo non significa disprezzarlo. Come ho detto, il corpo è la condizione fisicamente necessaria per definire ciò che siamo. Una persona con un buon udito sarà (anche) un insieme di suoni che una persona non udente non potrà mai essere. Una persona in grado di raggiungere la vetta di una montagna sarà tante cose che un sedentario non potrà mai diventare. Quindi il corpo è importantissimo, ma, per quanto importante, non è ciò che siamo.

Essere mondo non è una brutta cosa, anzi. Al contrario, essere corpi è piuttosto deprimente perché i corpi, inevitabilmente sono vittime del degrado, soggetti al declino, destinati alla morte. Il corpo ha parecchie limitazioni dovute ai limiti biologici e agli accidenti casuali che, nel corso dell’evoluzione hanno scolpito la nostra struttura biologica: la retina è costruita alla rovescia; l’appendice è un rischio per la salute; il tessuto adiposo si accumula senza rispetto; i capelli cadono o si incanutiscono; i denti crescono su mandibole ormai troppo piccole; le ossa del bacino si sono ristrette per la camminata bipede e rendono doloroso il parto. Ma il mondo? Il mondo è infinito ed eterno. Essere mondo vuol dire dare sostanza fisica alla nostra mente, vuol dire capire che il nostro essere non è una secrezione biologica, ma la realtà che amiamo, odiamo, frequentiamo, subiamo, ricerchiamo. Non siamo né un corpo né una mente immateriale. Noi siamo — e la novità è che questa è una affermazione empirica scientificamente dimostrabile — ciò che il nostro cuore sente. L’ipotesi di essere fisicamente fuori e diversi dal nostro corpo ci permette di dare sostanza fisica a quello che la tradizione ha messo, o dentro una mente immateriale o in un corpo privo delle caratteristiche necessarie.

Quindi, in sintesi, ecco la mia proposta: non siamo il corpo, noi siamo mondo. Siamo quella parte della realtà fisica che esiste relativamente al nostro corpo.

 

Riccardo Manzotti

www.consciousness.it

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    Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.

    Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.

    Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.

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    Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.

    Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.

    La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.

    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

    www.claudiapanico.com

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    Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.

    Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.

    Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.

    Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.

    Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.

    GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA

    Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.

    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

    Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.

    Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.

    LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA

    Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.

    Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.

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    ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO

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    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

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    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

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    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

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    Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.

    GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA

    Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.

    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

    Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.

    Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.

    LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA

    Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.

    Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.

    Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.

    ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO

    Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.

    E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)

    Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.

    Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.

    La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.

    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

    www.claudiapanico.com

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  • Una pratica che incontra oriente e occidente

    Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.

    Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.

    Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.

    Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.

    Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.

    GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA

    Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.

    Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).

    Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.

    Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.

    LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA

    Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.

    Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.

    Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.

    ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO

    Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.

    E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)

    Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.

    Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.

    La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.

    LA MAPPA DELLA COSCIENZA

    La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.

    Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.

    Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.

    Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.

    Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.

    UN PRINCIPIO FONDAMENTALE

    Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.

    E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.

    Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.

    Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”

    Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.

    Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.

    Claudia Panico

    claudia@claudiapanico.com

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