Stavo lavorando a un piccolo testo su “Oppenheimer a Gaza”, ma ho preferito il silenzio, mi tratteneva una sorta di pudore se non di vergogna. A che titolo e con che coraggio proporre un’approssimativa e pretenziosa lezione di storia su una bomba geopolitica del dopoguerra?  Certo, al potenziale dei “rifugiati avanguardia dei loro popoli”[1] e alla ricchezza del pensiero diasporico e politico ebraico nel pensare le rovine della storia, venne dato un taglio con la creazione di uno Stato-nazione espansionista che riproduceva le medesime condizioni di oppressione subite nei secoli dagli ebrei.[2]  E che nasceva generando a sua volta centinaia di migliaia di esuli e rifugiati.  Ma oggi né l’inadeguatezza personale, né la complessità storica, e nemmeno la supposta purezza delle proprie ragioni ci può far guardare altrove quando il lutto diventa un’arma, e la politica internazionale legittima con nonchalance la voglia di pulizia etnica da parte del governo israeliano.

Non posso smettere di risuonare e non posso nemmeno smettere di scrivere…

Mio padre, che era un diplomatico francese di basso rango con sede a Pechino durante la Seconda Guerra Mondiale, fu inviato a Tokyo l’11 marzo 1945 per vedere direttamente e riferire sulla situazione il giorno dopo che 279 Boeing Superfortress avevano distrutto Tokyo in una campagna di bombardamenti strategici. Alcuni aviatori americani dovettero usare le maschere di ossigeno quando l’odore di carne bruciata entrò nei loro aerei. Il bombardamento di una città di legno provocò un incendio devastante che causò la morte di 100.000 persone. Mio padre passò la notte accanto al letto di una ragazza morente per le ustioni.

Come tanti, sono sconvolto non solo dal conflitto, ma dall’eccesso spietato di violenza, soprattutto dai video devastanti e dalle notizie che mi vengono inviate e che la macchina mediatica si astiene dal mostrare. E dall’incandescente sostegno di alcuni al genocidio come unica soluzione. Per alcuni un sentimento di lutto inclusivo significa tradimento.

E non posso dimenticare come il Segretario di Stato Colin Powell all’ONU abbia sventolato una finta provetta sostenendo che fosse la prova dei progetti di guerra chimica di Saddam Husseyn. Non c’è nulla di terribilmente nuovo nell’indebolire la risoluzione del nemico bombardando i civili o raccogliendo sostegno attraverso notizie false accuratamente create. Di chi possiamo fidarci?

Molti di noi, tuttavia, sentono che c’è un rendez-vous con il “momento presente” che accoglie altre temporalità.

Penso a come Walter Benjamin, nei tempi più bui della Seconda guerra mondiale, parlasse di “sintomi storici” come di una diffrazione temporale, in quei momenti in cui, in un intreccio fulmineo,  il passato rivela qualcosa del  presente (e viceversa il presente illumina il passato). Percezioni di intrecci (epigenetici) che costellano un traumatico divenire umano e che emergono in un lampo di intuizione piuttosto che serviti sul freddo piatto lineare della storia. E che rivelano le assonanze profonde tra diversi cicli di distruzione.

Il desiderio umano neurotipico di guerra, di controllo totale e di soluzioni finali ha infatti profonde radici archetipiche. Oltre alle derive pulsionali di ordine “schizo-paranoide” su cui sempre la propaganda fa leva. Come possiamo sfuggire all’ipnotica narrazione apocalittica messa in atto in questo oscuro presente, come possiamo imparare a discernere le sue crepe, e in quelle stesse crepe una linea di fuga non per de-responsabilizzarci, non per ignorare l’orrore ma per rispondervi altrimenti?  L’orrore attuale potrebbe forse invitarci a compostare il nostro eccezionalismo umanista? Tutte le relazioni non-solo-umane stanno forse cercando di offrirci una sconcertante alternativa al di là dell’attuale scorciatoia di una forma di lutto che nutre la guerra e porta a rovine e genocidi senza fine?

Il post-attivismo non è una mera resa alla ripetizione storica. Piuttosto il riconoscimento che le “soluzioni” specialmente quelle “finali” sono spesso parte integrante del problema.

 

Fabrice Olivier Dubosc

Clinica della crisi

 

 

1 Cfr. Hannah Arendt Noi rifugiati a cura di Donatella Di Cesare Einaudi, 2022

2 E’ la tesi della stessa Arendt.

 

Immagine di Mohammed Ibrahim

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