Iniziamo a dare spazio in Matrika alla morte e a tutto ciò che la circonda: qualcosa di molto intenso e molto intimo che ci accomuna come esseri “viventi” e che talvolta, non essendo completamente afferrabile e conoscibile attraverso il pensiero e la razionalità, viene rimosso.
Ospiteremo nei prossimi numeri della rivista contributi di donne e uomini disponibili a condividere con noi qualcosa rispetto a questa “non conoscenza”. Iniziamo qui con le parole di Frank Ostaseski.
Alcuni anni fa, mentre nel nostro hospice stavo girando su un fianco un paziente per lavargli la schiena, lui mi disse, voltando il viso sopra la spalla: “Sai, non ho mai pensato che fosse così”.
Io sono molto sincero con gli altri e così gli ho chiesto: “Come pensavi che fosse?” e lui mi rispose: “Non ci avevo mai pensato”. In quel momento capii che questa comprensione per lui rappresentava una sofferenza maggiore del cancro in fase terminale che aveva al polmone.
La morte lo aveva afferrato di sorpresa.
Per ciascuno di noi c’è un angolo molto scuro nella nostra mente. E lì, proprio in quell’angolo, c’è una voce che ci dice: “Un giorno morirò”.
Il modo in cui diamo ascolto o respingiamo questa voce determina come vivremo le nostre vite. A volte la voce ci parla molto chiaramente, ad esempio quando a stento sfuggiamo a una disgrazia o quando muore qualcuno che conoscevamo. Invecchiando i capelli si diradano e diventano grigi e le nostre pance più molli ed è allora che la voce si fa sentire con più frequenza. Man mano che la morte si accumula nella nostra vita, la voce ci parla più spesso. Quando muore qualcuno che amiamo allora ci urla; ci fa sapere che la nostra vita non sarà mai più la stessa, ma che è stata alterata per sempre.
La morte è la questione centrale delle nostre vite eppure a mala pena pronunciamo la parola. In America impieghiamo tutta una serie di eufemismi al posto della parola ‘morte’. Le persone non muoiono, se ne vanno o finiscono, come una carta di credito. Nella vita facciamo piani su tutto: con chi ci sposeremo, dove andremo in vacanza, quale carriera intraprendere, quanti bambini avere… tutte cose che potranno non accadere mai. Ma per l’unica cosa certa che ci capiterà non ci prepariamo. E anch’io non sono poi tanto diverso dagli altri.
Ogni giorno lavoro con persone che stanno morendo e ancora ci sono dei giorni in cui penso che a me non capiterà. Ma molto lentamente, nel corso di questi vent’anni, la morte ha iniziato a richiedere la mia attenzione ed è proprio perché richiama la nostra attenzione che essa ha una tale grazia e un tale potere. In qualche modo galvanizza la nostra attenzione nel momento.
Quando parlo della morte non lo faccio per spaventarci o intristirci ma perché in base alla mia esperienza, stando con persone che stanno morendo e riflettendo quotidianamente sulla morte, ho visto che è il migliore dei modi che conosco per entrare pienamente nella vita. Non conosco nessuna altra cosa che mi mostri a me stesso con la stessa chiarezza come lo stare accanto a qualcuno che sta morendo.
Quando vediamo la morte da vicino, a portata di mano, proprio sulla punta delle dita, iniziamo a capire qualcosa della vita. Cominciamo ad apprezzare che ogni cosa cambi: ogni pensiero, ogni relazione, ogni atto d’amore viene e va.
E una volta compreso questo, non ci attacchiamo più troppo strettamente a ogni cosa. Forse non ci prendiamo più nemmeno troppo sul serio. E questa qualità coltiva in noi la capacità di cedere, abbandonare e incoraggia la nostra generosità. Mi sembra strano, ma è vero, che la riflessione sulla morte ci rende più gentili gli uni con gli altri.
Quando si inizia a vedere quanto sia precaria la vita, allora si capisce anche quanto essa sia preziosa e allora non si vuole sprecare nemmeno un momento. Si desidera vivere pienamente, si vuole dire agli altri che li amiamo sul serio.
(…)
Un luogo dove riposare in mezzo alle cose.
Spesso pensiamo al riposo come a qualcosa che faremo quando tutto il resto sarà finito. Come quando andiamo in vacanza o abbiamo finito di lavorare. Ma nel lavoro di accompagnamento delle persone che stanno morendo, dobbiamo riuscire a trovare questo punto di riposo, a volte anche in mezzo al caos. Questo luogo è sempre lì per noi, è sempre a disposizione. Dobbiamo solo portarvi l’attenzione e imparare a non ostacolarlo.
Una volta mi chiamarono a casa perché una donna nel nostro hospice stava per morire. Arrivai per stare con lei.
Era un’anziana donna ebrea russa di ottantasei anni, molto dura, senza il minimo interesse per il buddhismo. Quando entrai nella sua stanza faceva molta difficoltà a respirare, ansimava. Di solito cerco di intervenire il minimo possibile e dunque mi sedetti in un angolo della stanza. Le avevamo già somministrato tutte le medicine del caso e degli analgesici. Non c’era dolore, ma sofferenza. Un’infermiera che le sedeva vicino e a un certo punto si rivolse ad Adele, questo era il nome della donna, dicendole: “Non aver paura, sono qui io”. Al che Adele replicò: “Mi creda, se si trovasse nella mia situazione anche lei avrebbe paura”. Dopo un po’ l’assistente disse: “Mi sembra che abbia freddo, vuole una coperta?” La donna rispose: “Certo che ho freddo, sono quasi morta!” Davanti a quella situazione feci due osservazioni: la prima era che Adele voleva qualcuno che fosse molto diretto con lei, non voleva sentire discorsi new-age sulla morte. La seconda era che la sua sofferenza si manifestava nel respiro. Mi avvicinai e le chiesi: “Vorresti lottare un po’ meno?” “Sì”. Allora proseguii: “Ho visto che c’è un piccolo posto proprio lì, al termine dell’espirazione, una piccola pausa. Dimmi se puoi, anche solo per un attimo, portare l’attenzione proprio in quel punto”. Ricordate? La donna non aveva mai avuto il minimo interesse per il buddhismo o la meditazione o cose del genere, ma aveva una forte motivazione a liberarsi dalla sua sofferenza. Così riuscì a portare l’attenzione in quel posto di riposo, quel brevissimo momento alla fine dell’espirazione e un po’ alla volta vidi svanire la paura dal suo viso. Aveva trovato un luogo di riposo nel mezzo delle cose. Quel momento di riposo che è sempre lì, a disposizione di ciascuno; si presenta in modi diversi per ogni individuo. Dal punto di vista pratico potremmo dire che è il luogo che si trova tra due respiri.
Trova un luogo di riposo nel mezzo delle cose, scopri come si presenta nella tua vita.
(Estratti da un incontro pubblico avvenuto in una delle serate tenute da Ostaseski in Italia alla fine del secolo scorso)
Frank Ostaseski
Pioniere nell'accompagnamento del fine della vita.
Nel 1987, ha co-fondato lo Zen Hospice Project, il primo ospizio buddista in America.
Ha coordinato questa fondamentale attività per circa 20 anni, stabilendo un modello
valido ancora oggi per un approccio mindful e compassionevole.
Nel 2005, ha fondato l'Istituto Metta, un gruppo di numerevosi medici e operatori
sanitari, una rete nazionale di educatori e avvocati per coloro che devono
affrontare malattie potenzialmente letali.
Frank ha dedicato la sua vita al servizio. In una fusione di intuizione spirituale
e azione sociale pratica che si è manifestata nel prendersi cura dei senzatetto,
prestando servizio nelle prime linee dell'epidemia di AIDS, del lobbying congressuale,
insegnando la meditazione.
Metta Institute