Nerezza non è un sogno pan africanistica associato a visioni di futura supremazia, ritorno dall’esilio e coerenza nazionalista e non parla nemmeno di una nerezza afrocentrica, statica ed essenzialista. Non si limita al concetto identitario antagonista associato alle dinamiche dell’identità nelle comunità Afro-diasporiche, e non è una promessa disincarnata e universale di emancipazione.

In sintesi, questa nerezza non è una creatura dello Stato o della giustizia. Questa nerezza, pure secreta dalla storia e dalle storie e dai lutti di corpi neri, è l’olio votivo che illumina la fine di un “mondo”, cercando crepe nel vasto territorio umano (l’Anthropos), e promuovendo pratiche decoloniali fuggitive.

Tale Nerezza sconcerta: è un invito a intrecciare i fili della complicità senza cadere nella comoda trappola della colpa; un invito a mappare il desiderio e a fare i conti con il fallimento. Un invito a combattere – non con i poteri stabiliti che disprezziamo, ma con le paradossali collusioni con cui sosteniamo tali poteri.

Badate. Proprio come l’autismo non ha solo a che fare con eventi neurologici nella testa di un figlio, ma con i modi con cui produciamo e nominiamo i corpi e i mondi che li supportano escludendo altre corporeità, la Nerezza non riguarda solo persone nere (così come la bianchezza non riguarda solo i bianchi), anche se emerge dall’attenta considerazione dei contesti, delle esperienze e dei viaggi di entrambi. La nerezza è una cripistemologia [epistemologia che nasce da saperi considerati disabili/crippled NdT] che considera l’uomo, l’Anthropos, e ciò che fa, ciò che produce, ciò che esclude; la nerezza è la ricerca di nuove disabilità, di nuove fedeltà corporee. Riguarda un mondo macchinico che definisce alcuni colpi speciali – e altri corpi come appendici superflue, vicine all’animalità, e che non giungeranno mai alla gloria e alla nobiltà di quei corpi che si identificano come corpi bianchi: una nobiltà grevemente sostenuta dal diniego censorio della vitalità del mondo materiale. La nerezza non equivale agli slogan riprenderci il nostro, vendicarci, essere uguali, essere risarciti. Non equivale a quella opposizione normativa che rientra in fondo nell’architettura del progresso bianco. Riguarda invece il modo in cui corpi rimangono invischiati nei mondi che creano, nei mondi che li creano – riguarda le aperture, le crepe, che spesso emergono, quasi miracolosamente, riguarda i portali attraverso i quali possiamo intuire con un’intensità percettiva quasi animale che una diversa via è possibile.

La nerezza non è solo una opposizione avversa e prescrittiva che interferisce con il progresso bianco, è l’abbondanza nei confronti della quale siamo già indebitati – anche se non sappiamo bene come riconoscerlo. Parlo delle piume di polvere ricche di fosforo e delle diatomee morte negli antichi laghi dei deserti africani che volano al di là dell’Atlantico per nutrire i polmoni amazzonici del pianeta (e fanno eco ad altri viaggi che attravesarono l’Atlantico quattrocento anni fa); parlo della porosità degna-di-gratitudine che turba ogni vocazione alla permanenza.

La nerezza – questa lettura elettrica e temporanea di ciò che  emerge attraverso la storicità della presa in schiavitù e della colonizzazione – è la possibilità estatica che anche la bianchezza si stia mutando in altro.

Bayo Akomolafe

bayoakomolafe.net

Traduzione di Fabrice Olivier Dubosc

Immagine di Phyllis Galembo

 

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