La razzializzazione è il processo attraverso il quale un gruppo dominante attribuisce caratteristiche razziali disumanizzanti e inferiorizzanti nei confronti di un individuo, una comunità o una cultura attraverso forme di oppressione, esclusione e violenza diretta.

E’ spesso radicata così profondamente a livello sistemico da essere in modo ambiguo o dichiarato, parte fondante delle legislazioni e delle strutture istituzionali, producendo condizioni di emarginazione e sfuttamento al fine di mantenere e consolidare determinate forme di potere.

L’impulso di controllare, dominare e sopraffarre, alla base di tale fenomeno di discriminazione, potrebbe essere solo uno degli infiniti modi in cui l’essere umano ha tentato di alleviare il profondo senso d’incertezza che colora ogni istante della vita. Oppure potrebbe compensare, a livello più profondo, l’eredità primordiale di una specie vissuta per migliaia di anni in mezzo agli altri animali, incarnando contemporaneamente gli impulsi di predatrice e preda, o potrebbe celare il terrore dei traumi relazionali trasmessi fino a noi dalle aberrazioni delle civiltà fondate sul patriarcato e sulla guerra.

Nessuna di noi è nata con la chiara consapevolezza di quanto siano onnipervasivi e di come funzionino i sistemi di oppressione, dei privilegi che questi determinano e delle barriere inconsce che erigiamo per evitare di prenderne coscienza. Nessuno di noi inoltre è nato con la conoscenza dei contesti storici che hanno dato forma ai privilegi o alla marginalizzazione che abbiamo ereditato.

Proviamo qui a presentare le interrelazioni possibili tra le storie che arrivano a noi dal passato, la moderna traumatologia e la biologia evolutiva  per spalancare nuovi immaginari possibili, dare spazio alla consapevolezza della frammentazione che incarniamo come corpi soggettivi e sociali , dar vita a nuove forme di relazione coinvolgendo non solo la ragione, ma anche l’intero organismo… La costellazione di ognuna di noi con gli altri e con l’ambiente, in ogni cellula dei nostri corpi.

Per tale ragione in questo scritto troverai alcune pratiche da esplorare durante la lettura, spazi d’ascolto trasformativo, pause potenzialmente feconde per la sua metabolizzazione…

Il coraggio di ricercare insieme, finchè siamo in tempo, le origini delle paure che nei secoli hanno generato le prime forme di segregazione, può ridare un senso pieno alle nostre vite, permettondoci di riconoscere ed evitare le nuove forme di isolamento ed emarginazione promosse dall’odierna civiltà tecnologica digitale.

Quest’ultima potrebbe rappresentare solo una complessa fase transitoria e venire presto spazzata via da nuove forme di coscienza ecosistemica comunitaria.

Questo presente, immerso nei numerosi millenni di sviluppo della nostra specie, potrebbe essere comunque solo un passaggio della traiettoria coevolutiva degli umani e delle altre forme di vita sulla Terra.

 

Storie da un privilegiato

…Questo scritto arriva da un uomo che ha raggiunto quasi mezzo secolo di vita passeggiando, in giro per il mondo, con i “suoi” documenti da europeo e la “sua” pelle rosea, spesso bruciata dal sole.

Mio padre e mia madre sono stati schiavizzati in vario modo dalla cultura capitalista in cui si sono rifugiati, per scappare dalla fame e gli stenti lasciati in Italia dalla Seconda Guerra Mondiale; hanno partecipato a loro modo al mondo delle merci e ne hanno tratto beneficio; io stesso ne ho tratto beneficio se ora posso essere qui, a scrivere con un processore digitale le cui componenti arrivano da miniere escavate in terre di cui forse neppure saprei pronunciare il nome, che indubbiamente saranno state devastate dalle attività estrattive coloniali e in cui la vita per gli abitanti, gli animali ed i lavoratori minerari, spesso sarà stata un incubo, per me, qui, nemmeno lontanamente immaginabile.

Mio fratello non ha attraversato il Sahara per poi finire i suoi giorni torturato in un campo di concentramento in Libia finanziato dall’Europa, le sue urla disperate non riempiono le mie notti insonni, mia sorella non è stata stuprata e venduta nella tratta della prostituzione che disinibisce e alimenta le frustrazioni di milioni di maschi repressi, i miei figli non sono scomparsi inghiottiti dal blu del Mar Mediterraneo, non ho visto la foto dei loro corpi cianotici, inermi galleggiare in superficie tra le pagine di un quotidiano… Eppure qualcosa in me sente tutto.

Immagino che una delle ragioni per cui le persone si aggrappano all’odio così ostinatamente sia dovuta al fatto che sentono, che qualora questo passasse, dovrebbero per forza avere a che fare con il dolore.”

James Baldwin

Il colore della pelle… e molto altro.

Il colore della nostra pelle differenzia il modo in cui siamo visti, accolti, accettati o rifiutati, la sorte che avremo nel cercare un lavoro, una casa o delle cure mediche, la violenza con cui potremmo essere fermati, inquisiti rispetto alle nostre origini e al possesso o meno di documenti, eventualmente bloccati, tratti in arresto, detenuti spesso a tempo indeterminato o lasciati morire inermi senza essere soccorsi.

Per secoli numerose delle nostre antenate e dei nostri antenati hanno talvolta perso la vita, la libertà o sono diventati a loro volta vittime nel tentativo di prevenire, fermare le persone o i gruppi, smantellare le strutture e le istituzioni che generavano forme di dominio, sfruttamento e marginalizzazione a causa di differenze di origine, genere, religione, orientamento sessuale, classe, identità, abilità o specie.

Molte e molti di loro non sono stati in grado di elaborare l’orrore che hanno vissuto o di cui sono stati testimoni e hanno immagazzinato tali intensità emotive come memorie implicite, impulsi, schemi neurali inconsci, responsi traumatici contratti ed agiti nei loro corpi.

Come scrive lo psicoterapeuta afroamericano Resmaa Menakem, un trauma non elaborato integralmente agisce come un sasso tirato in uno stagno, genera onde concentriche che si ampliano sulla superfice dell’acqua…

Tali traumi insieme a miriadi di impulsi, collassi del sistema nervoso, strategie di protezione o evitamento costruite inconsciamente intorno a questi, sono stati trasmessi e accumulati lungo traiettorie che interrelano numerose generazioni. Attraverso l’espressione epigenetica del DNA o veicolate fisiologicamente e psicologicamente da abitudini, azioni, impulsi, sensazioni, immagini, racconti, stereotipi, convinzioni: nei secoli sono divenuti cultura, struttura, legge, gerarchia e accumulo di poteri.

Quando una persona è testimone di un’aggressione deliberata e violenta ad un’altra forma di vita, fa esperienza di quello che viene chiamato trauma secondario. Ognuno di noi, spesso per l’intero arco della nostra esistenza, nelle nostre esperienze quotidiane in famiglia, nelle strade, nei luoghi di lavoro o attraverso le immagini e le storie cruente pubblicate dai mezzi d’informazione o vomitate dagli schermi, è sistematicamente soggetto a questo tipo di trauma.

I nostri sistemi nervosi inconsciamente rispondono a questo tipo di esperienza in modo da difendersi da essa dissociando, cioè attuando modalità di congelamento, evitamento e assenza di coinvolgimento empatico o sviluppando dinamiche di lotta o fuga. I nostri corpi hanno una forma di conoscenza che è differente da quella cognitiva alla quale siamo state prevalentemente educate ed i responsi di sopravvivenza legati ai traumi sono così veloci da bypassare i circuiti cerebrali delle scelte assunte in modo volontario.

Tali schemi di reazione sono profondamente radicati nella fisiologia di ognuno e si esprimono attraverso parti di noi che incarnano comportamenti radicati su modalità di evitamento, paure irrazionali, aggressività, pregiudizi e strategie di dominanza o sottomissione. Quando queste ritensioni traumatiche sono trasmesse a livello epigenetico, educativo o somatorelazionale ed ereditate per diverse generazioni, possono diventare modi di fare espliciti o inconsci tipici di famiglie, comunità o gruppi che per determinati periodi storici si identificano con esse.

Nonostante tutto questo, ogni elemento in natura è in continuo, incessante cambiamento. Oggi sappiamo con chiarezza che oltre ai traumi anche le esperienze interpersonali di fiducia, attaccamento sicuro e amore incondizionato trasformano le connessioni neurali e la trascrizione genica responsabili per buona parte dei nostri pensieri e del modo in cui sentiamo il mondo.

 

Diversità, sviluppo e coscienza

Come umani oggi possiamo dotarci di strumenti naturali per adempiere agli stadi dello sviluppo personali e comunitari potenziali rispetto alla neurofisiologia che incarniamo, o continuare a “regredire” nella spirale di separazione generata dal trauma collettivo e incarnata nei responsi di sopravvivenza che ci alienano da noi stessi e ci mettono gli uni contro gli altri e le altre.

L’essere umano, rispetto ad altre specie dall’origine più antica, presenta una particolare complessità della corteccia cerebrale che ci fornisce la possibilità di pensare, astrarre, progettare, rappresentare la realtà.

Tra i primi stadi della nostra traiettoria coevolutiva incarniamo la possibilità descritta dalle psicologie dello sviluppo di organizzare la personalità attorno ad una visione ego-centrica basata su impulsi di sopravvivenza individuali, che possono caratterizzare in modo sano i nostri primi anni di vita.

E’ evidente che in questi precoci approcci alla realtà si modella il modo in cui interagiamo con la forma attraverso le informazioni retiniche che riceviamo associate alle emozioni che proviamo: nell’educazione punitiva tradizionale di tipo patriarcale, che ha connotato per secoli le società occidentali, la diversità della forma era associata alla gerarchia e al potere. Il grande giudicava il piccolo ed eventualmente lo puniva utilizzando il dolore e la paura come strumenti pedagogici. Inoltre il maschio imponeva la sua diversità alla femmina, l’uno era superiore, l’altra inferiore, l’uno dominava l’altra serviva. Le altre forme di vita erano altro da se, oggetti. In questo modo a livello neurale ancora prima che culturale, la diversità della forma è stata associata probabilmente all’adrenalina, la noradrenalina e il cortisolo, ormoni dello stress che se prodotti in maniera cronica portano all’inibizione di sentimenti come l’empatia e la compassione.

Nonostante questo moltissimi bimbi e bimbe potrebbero aver avuto la possibilità di giocare tra loro e sviluppare i bisogni relazionali di appartenenza tipici delle specie sociali e caratteristici di uno stadio evolutivo di tipo comunitario o etno-centrico.

Queste due prime fasi sarebbero probabilmente gli stadi fondamentali da adempiere grazie alla fiducia e all’amore che possiamo ricevere nelle relazioni dello sviluppo invece che divenire le esperienze traumatiche da cui possono avere origine i conflitti irrisolti, l’insoddisfazione e la frammentazione frutto delle pedagogie delle società fondate sul giudizio e la competizione.

La capacità di assumere una visione eco-centrica basata sull’interrelazione, incarnandola in modo coerente, è qualcosa che ha a che fare con la possibilità di ognuno di noi di elaborare, metabolizzare e “digerire” la storia del pianeta inscritta in ognuna delle nostre cellule…

 

Dal corpo: le eredità transgenerazionali in noi

I padri bianchi ci hanno detto: penso dunque sono. La madre Nera dentro ognuna ed ognuno di noi – la poetessa – bisbiglia nei nostri sogni: sento dunque posso essere libera\o.”

Audre Lorde

Possiamo sederci in una stanza o in un luogo all’aperto in cui sappiamo che non verremo troppo disturbati. Lasciamo il corpo adagiato sulla superficie che lo sostiene, la sedia, una poltrona, una panchina qualsiasi essa sia. Iniziamo ad avvertire le zone di contatto e l’appoggio dei piedi a terra. Gradualmente passiamo ad orientarci alle aree del corpo in cui sentiamo meno tensione, più spazio. Rimaniamo in contatto con le sensazioni vitali di maggior piacere dandoci il giusto tempo per noi…

Poi, aperti ad ogni tipo di scoperta, osserviamo in sequenza dal basso all’alto come cambiano le sensazioni vitali, partendo ad esempio dalla pianta dei piedi, per poi salire al dorso, le caviglie… Fino ad arrivare lentamente ad ascoltare via via le varie aree giungendo poi anche alla mandibola, gli occhi, il cranio…

Da qui lasciamo libera l’attenzione e osserviamo in quale area del corpo si sposta. Prendiamo tempo.

Osserviamo il respiro e in quali aree del corpo la respirazione si espande…

Se siamo qui in questo momento, è perché in ogni cellula del nostro organismo c’è l’intera storia evolutiva degli esseri viventi sulla Terra. Tutte le informazioni necessarie per mantenere il meraviglioso equilibrio che chiamiamo “vita” sono perfettamente immagazzinate nel nostro DNA: siamo gli eredi di chi è sopravvissuto alle complessità dei millenni di storia umana, i predatori animali, le carestie, le guerre, le epidemie… I nostri avi hanno superato tutto questo permettendo a te e me di essere qui.

Il nostro corpo, se gli diamo fiducia, sa cosa fare…

Portiamo ora per un attimo l’attenzione a tutte e tutti i nostri avi, generazioni e generazioni di uomini e donne che non conosceremo mai, ma che ce l’hanno fatta o che hanno dato il loro meglio evitando di sopraffarre o sottomettersi, lo hanno fatto  anche per noi. Stiamo in contatto con la loro forza, il loro coraggio e vediamo se possiamo esprimere gratitudine nei loro confronti… Portiamo la nostra attenzione al centro del nostro petto e da lì proviamo ad esprimere un “Grazie”, o a verbalizzare una frase per onorare la loro esperienza che ci ha permesso di essere qui, oggi, ad affrontare anche noi qualsiasi cosa la vita ci presenti… Prendiamo tutto il tempo del mondo per stare con l’emozione che arriva e se arriva gratitudine osserviamo se nel corpo ha un calore, se è spaziosa, se genera un brivido o una vibrazione. Poi lentamente torniamo a sentire il contatto dei piedi col terreno, se è freddo o se è caldo. Li muoviamo un po’ in modo da sentirne la vitalità e ci orientiamo nell’ambiente con gli occhi muovendo bene il collo a 180° in modo da avere una visione intorno a noi più ampia e graduale possibile.

 

Gli “altri”, le origini della democrazia e lo schiavismo in Europa

Sebbene in ambito storico e antropologico sia ormai ritenuto palese come siano state numerose le culture che nel passato si sono basate sulla condivisione e sull’ospitalità, l’origine dell’attuale società dei consumi basata su relazioni legate al profitto, potrebbe esser fatta risalire all’inizio delle civiltà sedentarie dedite all’agricoltura e all’allevamento stanziale, per le quali i territori divennero fonte di sostentamento da difendere e i popoli e le genti estranee, considerate fuori dalla comunità o sconosciute, divennero dapprima gli “altri” e una volta conquistati o sottomessi, gli “inferiori“.

In antichità però questo non era giustificato attraverso l’idea di razza: in Europa i Greci in tal senso differenziavano i popoli in base ai territori abitati e come testimoniato dagli scritti di Ippocrate, tendevano a focalizzarsi sulle differenze di clima per spiegarne le variegate caratteristiche fisionomiche e somatiche.

In base ai testi dell’epoca giunti fino a noi, sembra che la schiavitù non fosse minimamente messa in discussione nè dai Greci, nè dai popoli da questi conosciuti.

Intorno al VII° sec. A.C. nell’area del Mar Nero e nelle regioni corrispondenti all’odierna Bulgaria meridionale, al nord est della Grecia e alla Giorgia, si concentrarono le più brutali compravendite di esseri umani.

Avrebbe potuto la cultura classica dei Greci, fiorire ed arrivare come modello di bellezza e civiltà fino ai nostri giorni, senza lo schiavismo?

Platone, celebrato per la sua saggezza, ad esempio, possedeva almeno 50 servi di sua proprietà… Avrebbero forse potuto i cittadini e i filosofi di Atene, culla della democrazia originaria, dedicare tempo alle loro raffinate dissertazioni senza incatenare e sottomettere altri esseri umani?

Non possiamo certo rispondere a queste domande, ma possiamo forse riflettere sull’archetipo generativo delle strutture governative degli stati considerati oggi come moderni e all’avanguardia. Comprendere che da sempre questi si sono basati su forme di schiavismo di cui beneficiavano ridotte elite, riproducendo in ambito parlamentare dinamiche di potere basate su relazioni inique tra maggioranze e minoranze.

 

L’invenzione della razza: ipotesi eurocentriche circa le sue origini

In ambito biologico la parola razza può essere utilizzata per una popolazione di organismi, distinguibile da un’altra popolazione della stessa specie, per la differenza dei tratti genetici ereditati.

Oggi i genetisti affermano che l’insieme delle caratteristiche somatiche di una persona, costituisce solo una minuscola espressione dei 40.000 geni che compongono il genoma umano. E talvolta sembra esserci più variabilità genetica tra individui all’interno di uno stesso gruppo, che vivono in una determinata area, piuttosto che tra individui di gruppi dalle caratteristiche fenotipiche diverse e geograficamente lontani.

Anche se alcuni scienziati sono indubbiamente responsabili di aver giustificato l’idea dell’esistenza della razza, la costruzione e diffusione pervasiva di questa, rimane comunque di origine politica: ha avuto nel tempo la funzione di giustificare e perpetuare il sistema di sfruttamento, la colonizzazione dei territori, la segregazione, la schiavizzazione dei corpi e l’annichilimento delle menti su cui si basa l’odierno sistema economico capitalista.

Il lavoro e l’accumulo di potere, beni o denaro, giocano un ruolo fondamentale nella storia della razzializzazione, per questo non può bastare per eradicare il razzismo, una trasformazione meramente culturale. La disparità generata dal colonialismo si manifesta nei numeri delle fluttuazioni di borsa, nel glamour sfavillante dei centri commerciali, nel lusso ostentato delle sfilate di moda ed è ben difesa da armi, tribunali, prigioni, divise ed eserciti.

L’uso del termine razza per descrivere differenti categorie di persone sembra essere sorprendentemente recente e risalire ad un passaggio scritto del poema del 1508, “The Dance of Seven Deadly Sins” di William Dumbar, che a sua volta potrebbe essere stato influenzato dalla parola spagnola “raza”, purtroppo utilizzata per secoli per marchiare cavalli e cani. Tra il XV°e il XVI° secolo, gli Europei utilizzarono tale categoria concettuale per definire discriminanti religiose in base alle quali monopolizzare i movimenti e gli affari tra i territori dominati dai Cristiani e quelli Islamici: nel 1455 il papa Nicola V° ordina agli eserciti del regno di Portogallo di “attaccare, assoggettare e ridurre in schiavitù perpetua” tutti i “nemici di Cristo” lungo le coste occidentali dell’Africa. L’autorizzazione comprendeva anche la possibilità di dare la libertà alle persone che venivano catturate, se queste si fossero convertite al Cristianesimo.

Portoghesi, spagnoli e veneziani iniziarono una vasta tratta di schiavi eludendo il mandato papale relativo alla possibilità di ridare la libertà ai prigionieri, descrivendo la loro “merce” come “meno che umana”.

L’espansione della tratta degli schiavi nel XVII° secolo coincise con lo spostamento del paradigma dominante tra gli intellettuali europei, dal pensiero teologico a quello biologico, iniziando a dare alle istituzioni scientifiche l’ultima parola rispetto alla verità e alla conoscenza.

I biologi dell’Illuminismo iniziarono attraverso la tassonomia a classificare ogni tipo di forma di vita, denominando, dividendo e riducendo la biodivrsità in rigide categorie organizzate in modo gerarchico. Applicando lo stesso modello ai corpi umani i naturalisti del tempo resero il concetto di razza oggetto di studio scientifico, assumendo il colonialismo e lo schiavismo come altrettanti fenomeni naturali.

Nel ‘700 infatti viene attribuita al antropologo tedesco Blumenbach la classificazione degli esseri umani in categorie razziali sulla base della dimensione del cranio. Fu questi a coniare il termine “caucasico”, dopo il rinvenimento di un antichissimo teschio nelle montagne del Caucaso in Russia, e denominò le persone del suo stesso colore di epidermide caucasici, in riferimento a quel teschio. L’americano Morton nel secolo successivo misurò i crani di persone che identificava nelle categorie di nativi americani, afroamericani e caucasici, ipotizzando che i crani caucasici avendo più volume dovevano avere cervelli più grandi e, di conseguenza essere dotati di più intelligenza. Questa visione suppostamente scientifica è stata accettata per molti decenni, a partire dalla metà del 1800, giustificando varie aberrazioni umane, idee di superiorità e segregazione razziale.

 

Dal trauma all’idea di bianchezza

Cosa si muove sullo sfondo, spesso a livello inconscio, ogni qual volta affiora in noi il pensiero di essere migliori delle altre e degli altri? Proviamo ad incuriosirci in questo senso, a notare quale fenomeno è da substrato a tali impulsi…

Forse poco prima dell’arrivo di pensieri sulla nostra superiorità arrivano paura, rabbia o mancanza di autostima? E da dove originano tali sentimenti ed emozioni? La parola giudizio forse ci dice qualcosa?

Continuando insieme ad esplorare questa traccia,  possiamo prenderci alcuni minuti per verificare rispetto alla presenza di residui mnestici, eventuali memorie registrate nel nostro sistema nervoso. Proviamo a ricordare un episodio in cui ci siamo sentiti/e giudicati/e, per qualche secondo rammentiamo il viso di una delle persone che ci hanno fatto sentire diverse o diversi.

Cosa succede ora nel corpo? Quali aree si stanno irrigidendo? Ci sono delle parti del corpo meno tese o sembra che tutto diventi intorpidito e meno vitale?

Ora muoviamo la nostra attenzione invece al ricordo di una persona ancora in vita che ci ha guardato con gentilezza, che ci ha ospitato o accolto in modo autentico. Ricordiamone per alcuni secondi il viso, il tono della voce o alcuni suoi gesti spontanei.

Come cambiano ora le sensazioni del corpo? In quale parte senti maggiore vitalità o calore? 

 

 

Ognuno ed ognuna di noi, nello spazio della nostra mente, può riconoscere sotto forma di impulsi, pensieri, comportamenti… alcune parti sconosciute, negate o semplicemente diverse, spesso non soggette alle convenzioni sociali in cui siamo cresciuti o con cui ci identifichiamo.

Queste parti possono essere state in passato bersaglio delle frustrazioni dei nostri genitori, insegnanti, dei nostri conoscenti o perfino di noi stessi.

Rabbia, paura o insoddisfazione sono spesso gestite nella mente attraverso la proiezione sugli altri, sono distorte nella loro funzione biologica reale e divengono combustibili efficaci per alimentare brucianti divisioni, rancori ed odi in relazioni e società basate sul giudizio e la condanna.

La divisione concettuale tra male e bene, appunto o il bisogno del capro espiatorio da esporre al pubblico ludibrio sono altrettante componenti strutturali di tali società.

Importante potrebbe essere anche comprendere l’eredità transgenerazionale di un archetipo generativo da cui prendono forma negli ultimi due millenni alcune delle correnti religiose monoteiste del pianeta: quello della crocefissione pubblica di un uomo che si professava figlio di Dio, predicava la solidarietà, l’amore ed esortava al non giudizio. Venerato fino ai nostri giorni in forma di corpo sanguinante appeso ad una croce, attraverso dei chiodi impiantati negli arti e con in capo una corona di spine, nei secoli successivi alla sua morte e resurrezione descritte nei Vangeli, possiamo solo ipotizzare il terrore incarnato e immagazzinato nei sistemi nervosi dei suoi primi fedeli.

A Roma questi erano repressi, perseguitati e spesso martirizzati, dati in pasto ai leoni per alimentare l’eccitazione e l’orrore nel pubblico del Colosseo, del circo di Nerone o del circo Massimo. Ad ostentare e mantenere sottomesse le genti all’indiscutibile potere degli imperatori.

Nel III° secolo dopo Cristo l’imperatore Costantino trasforma la croce da simbolo di umiliazione e morte redentrice, a efficace simbolo politico di potere e vittoria mettendo le basi della Chiesa imperiale. Questa nei secoli successivi metterà in atto una feroce coazione a ripetere del trauma subito dai suoi primi fondatori attraverso infinite guerre di potere interne e contro i pagani, l’istituzione di tribunali ecclesiali che opereranno incessantemente fino ad arrivare al XII° secolo, periodo in cui con l’emergere di nuove forme di potere nelle città, iniziarono le più cruente forme di persecuzione ed ebbe inizio in mezza Europa l’attività di tortura e assassinio dei cosiddetti eretici. Negli stessi anni anche il potere laico utilizzava la condanna a morte in pubblico attraverso il rogo, la lapidazione o altre forme di tortura come deterrente a crimini e comportamenti non sottomessi o poco convenzionali.

Portogallo, Spagna e Inghilterra oltre a divenire imperi coloniali e importare le loro culture oltre oceano, si distinsero perticolarmente per la ferocia dei propri tribunali.

La famosa Torre di Londra, ad esempio ospitava una camera della tortura con diversi strumenti tra cui un telaio in legno su cui erano depositati e legati i corpi delle vittime alle estremità degli arti, questi venivano stirati ai lati opposti in modo crescente causando un dolore terribile fino a lacerare i muscoli, i tendini e fratturare le ossa.

Insieme al terrore generato dallo “spettacolo” di uomini e donne arsi vivi, decapitati e lapidati in pubblico, sembrava crescere il gusto macabro e l’entusiasmo delle genti nel partecipare e vedere in pubblico le esecuzioni, lo storico McGlynn nel suo libro “Violenza e giustizia nell’Inghilterra medievale” scrive dell’esistenza di un mercato in cui venivano fatte offerte per avere la possibilità di far parte del pubblico degli spettatori.

In questo clima di assassinii, torture, macellazioni, schiavizzazione, carestie e pestilenze si educarono sviluppando la loro visione del mondo molti dei coloni che emigrarono oltre l’Atlantico in nome della croce e dell’oro, considerando inferiori ed estiguendo quasi del tutto gran parte dei popoli nativi che vi abitavano, generando la diaspora africana per alimentare l’economia schiavista alla base del colonialismo.

Nei territori che oggi hanno assunto il nome di Italia, per secoli dopo la caduta dell’impero di Roma si sono succedute guerre di conquista a straziare le popolazioni inermi. La pratica della schiavitù permea le fondamenta delle varie strutture socioeconomiche che dall’alto Medioevo giungono fino ai nostri giorni. Numerosi tra gli antichi coloni romani divengono servi della gleba, contadini e braccianti agricoli: vivono come proprietà legate alle terre, umani ed umane assoggettati completamente al volere dei padroni nobiliari o signorili.

Nel “Carmen ad Rodbertum regem” scritto da Adalbertone di Laon si legge infatti “La casa di Dio che si crede una, è dunque divisa in tre: gli uni pregano, gli altri combattono, gli altri infine lavorano. Coloro i quali lavorano sono chiamati servi“.

Dovranno passare numerose generazioni prima di iniziare a vedere cambiamenti diffusi rispetto a tali dogmi. Solo nell’Ottocento in alcune aree della penisola si sviluppa la mezzadria, mentre il latifondo rimane il vincolo prevalente che assoggetta la maggioranza della popolazione ai proprietari terreni fino alla seconda metà del Novecento.

Secolo questo, in cui la fame e le carestie genereranno enormi flussi migratori: dal meridione e le isole al nord della penisola e dalla stessa Italia al Nord Europa e alle Americhe.

Il pregiudizio razziale con le sue forme di discriminazione accoglie uomini donne e bambini, sia che arrivino nei territori delle città industriali del settentrione, in cui sono sfruttati nelle fabbriche e definiti “terroni”, sia che abbiano attraversato l’oceano per arrivare in Nord America dove già dal Settecento erano stati considerati “razze non bianche” come sancito dalle leggi, dai regolamenti e dal linguaggio della stampa e della popolazione dei primi coloni americani dell’epoca, insieme agli irlandesi, i tedeschi, gli ebrei dell’Europa Orientale ed altri viandanti dei successivi flussi migratori.

Intanto la situazione in Italia viene espressa palesemente da quanto pubblicato nel 1938 dalla rivista “La difesa della razza”: «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo arianonordico.” A cui faranno seguito il “Manifesto degli scienziati razzisti” e successivamente, numerose leggi razziali e decreti antisemiti saranno firmati da Benito Mussolini e promulgati dal re Vittorio Emanuele III.

La Shoah messa in atto dal regime nazista del Terzo Reich con il supporto dell’Italia fascista e degli altri alleati nazionalisti, porterà la discriminazione e l’eliminazione sistematica di un numero di persone stimato tra i 15 e i 17 milioni, prevalentemente ebrei, ma anche rom, sint, dissidenti politici, omosessuali, diversamente abili, neurodivergenti assassinati direttamente o deportati in campi di concentramento e campi di sterminio nei quali saranno sottoposti ai lavori forzati e alle più indicibili torture per poi finire spesso la loro vita nelle camere a gas.

Queste ultime erano state utilizzate per la prima volta negli Stati Uniti per eseguire delle condanne a morte già dal 1928, derivavano come spesso accade nella storia delle invenzioni, da ricerche belliche effettuate nel corso della Prima Guerra Mondiale.

Leggendo tutto questo è facile dedurre come la cultura del dominio e della sopraffazione segua i fiumi e i rigoli del sangue versato attraverso i secoli: assume varie forme e denominazioni nella mente di una specie il cui senso evolutivo è stato distorto dalla mancanza di amorevolezza e fiducia nei più importanti passaggi dello sviluppo, dal concepimento all’educazione, fino all’ultimo respiro… Ma allora da dove viene chi ha rifiutato di essere complice di tutto questo?

Uomini e donne che hanno dato la propria vita, hanno visto le loro case bruciate e i loro familiari fucilati ma non si sono sottomesse/i? Quelle e quelli che hanno rifiutato le leggi e per combattere la dittatura hanno lasciato tutto?

E oggi dove siamo?

I pescatori che rischiando la propria libertà e l’imbarcazione in cui lavorano si avvicinano ai natanti dei profughi in Mediterraneo cercando di salvarli dai naufragi e dalla morte in mare, le ragazze e i ragazzi che manifestano furiosamente davanti ai centri di detenzione istituiti dai partiti di sinistra nel 1998 dalla legge Turco Napolitano, luoghi in cui chi è privo di documenti viene recluso a tempo indeterminato, le famiglie che ospitano persone considerate illegali dalla burocrazia dando fiducia al loro cuore, le anonime ed anonimi che indagano e attaccano le aziende che producono armi e quelle che sfruttano i conflitti nei territori da cui le migrazioni provengono, chi rifiuta di lavorare per le multinazionali e in particolare quelle estrattive, chi rischia la propria libertà per accompagnare uomini e donne spesso disperati a valicare i confini armati della fortezza Europa.

Gli odierni dissidenti non possono essere semplicemente umani, spesso sono definiti o categorizzati come attivisti politici e sbattuti nelle pagine di cronaca come pericolosi fuori legge per criminalizzare chiunque non accetti l’ipocrisia di una società fondata sull’omologazione, lo sfruttamento e il consumo.

 

Corpi come luogo di resistenza, fonte di conoscenza e potere

Per cambiare realmente questo potremmo chiedere la grazia divina… Aspettare un futuro prossimo di rivoluzioni culturali, trasformazioni politiche ed economiche internazionali? E iniziare adesso a prendere coscienza, accettare, esplorare e rielaborare secoli di traumi relativi all’oppressione e la discriminazione di corpi ad opera di altri corpi.

Corpi contratti, attitudini congelate e mentalità rigide e ristrette sono tutti effetti collaterali del trauma storico e intergenerazionale che ha portato alle guerre, le crociate, la schiavitù e alla razzionalizzazione: in ogni modo dal momento in cui iniziamo individualmente e collettivamente un processo di elaborazione reale i nostri corpi, le nostre convinzioni, i nostri sistemi nervosi, gli impulsi più profondi e nascosti, le nostre relazioni e le culture avranno nuovo spazio di sviluppo e trasformazione.

Esperienze di rivendicazione del corpo e del sentire umano più profondo possono liberarci dall’abdicazione al dominio delle macchine, alla supposta infallibilità dei numeri e delle intelligenze artificiali. Abbiamo bisogno di fidarci di noi stesse/i, sentire empaticamente, ri-conoscere e disidentificarci dalle terribili emozioni del passato in gruppi e comunità che sentiamo abbastanza “sicure” per iniziare ad aprirci, essere disponibili a relazioni fluide, creative, orizzontali e non giudicanti: la consapevolezza corporea della differenza tra la fiducia che possiamo sentire oggi e il dolore che ci siamo inflitti nel passato come umani è un nuovo territorio relazionale, non una bonifica del vecchio suolo.

Se sei in un corpo nero, indigeno o di colore (B.I.P.O.C.) e vivi a contatto con le società del consumo, probabilmente avrai speso parte della tua vita ad imparare a sopravvivere ai pericoli, le costrizioni e le contraddizioni della supremazia secolare imposta dai corpi “bianchi”. Questi ultimi invece potrebbero essere del tutto ignari o complici indifferenti rispetto quest’aspetto dell’umana esistenza, per l’ovvia ragione di non averla subita direttamente, averne ricevuto invece i privilegi, il supporto e l’assistenza.

Riflettere in questo senso non ha l’intento di generare nuove ferite, sensi di colpa o costruire ulteriori forme di dominio e sfruttamento identitari; richiede piuttosto di elaborare insieme la storia celata della nostra specie per liberarci dai traumi inscritti nei geni, nei corpi e nelle convinzioni distorte che abbiamo ereditato. Sperimentare strumenti relazionali nuovi sviluppati nell’ambito della teoria dell’attaccamento sicuro e nelle pratiche integrali volte all’equità e alla solidarietà.

Questo tuttavia potrebbe non essere così comodo e piacevole, non così remunerativo da dover generare ulteriore profitto, altrimenti se ne sarebbero già occupate ampiamente le persone all’apice delle strutture sociali dominanti, o le nostre antenate e i nostri antenati.

 

Supremazia bianca

Sono stata educata a vedere il razzismo solo in atti individuali di malvagità, non in forme sistemiche invisibili che conferiscono al mio gruppo il dominio.

Peggy McIntosh

 

La supremazia bianca è un ideologia razzista basata sulla convinzione secondo la quale esseri umani dalla pigmentazione epidermica pallida o rosea sarebbero superiori agli altri… Espressa in modo letterale, in questo modo semplice e diretto potrebbe sembrare pura follia, se non vi fossero secoli di genocidi, guerre, schiavismo, deportazioni, marginalizzazione, educazione e comunicazione sociale e mediatica orientati in questo senso, ad inscrivere tale paradigma alla base di relazioni, culture e norme delle società fondate sul modello bianco dominante.

Il mito della razza e della supremazia bianca è un costrutto culturale che spesso abbiamo ereditato inconsapevolmente, una maniera di vedere il mondo che si può manifestare in innumerevoli forme operando in modo inconscio o diretto, in noi e negli altri. Può essere considerato un effetto del colonialismo storico o delle sue propaggini sistemiche attuali che lo assurgono a segno di potere, prestigio, bellezza… acquisito per nascita.

In questo senso per molti l’idea di bianco equivale a migliore, più credibile, sicuro, più meritevole, al passo con i tempi, onesto, pulito…

Ma rimane banalmente quello che è, un sistema di oppressione disegnato per dare beneficio ad alcuni nei confronti di altri.

Cosa stà avvenendo in te, dopo aver letto quanto sopra? Osservi delle resistenze o senti forti emozioni che si muovono? Senti confusione e voglia di distrarti con qualcosa di piacevole?

Potremmo sentire affiorare rabbia, vergogna, dolore, furia o disorientamento ed apatia. Questo ci indicherebbe con chiarezza che il nostro sistema nervoso potrebbe essere forse già nella disposizione di elaborare la storia scritta nelle nostre cellule.

Non siamo qui per stimolare inutili e forse, dannose catarsi…

Per questo vediamo se le emozioni che si stanno muovendo sono troppo forti. Nota se vuoi, quali parti del corpo si stanno contraendo, quali tendono a intorpidirsi e desensibilizzarsi, quali invece sono presenti, meno contratte, meno scomode.

 

Quando ti permetti di avviare gradualmente questa elaborazione organica, saggiare questi responsi umani, queste emozioni e sensazioni per la prima volta, forse realizzi che non lo avevi mai fatto prima d’ora e che avevi probabilmente dissociato una parte della tua umanità.

Nessuno parla del momento in cui ha realizzato di essere bianco. O il momento in cui ha realizzato di essere nero. E’ una profonda rivelazione. L’attimo in cui lo hai compreso, è accaduto qualcosa. Hai dovuto riprendere in considerazione ogni cosa.

Tim Morrison

Fragilità bianca

Il neologismo “fragilità bianca” fu coniato da Robin Di Angelo in un articolo pubblicato nel 2011 dall’International Journal of Critical Pedagogy.

Tenta di spiegare la risposta di insofferenza ed evitamento, gli impulsi di difesa, rabbia, paura o senso di colpa generati nei corpi bianchi da narrazioni che implicano la consapevolezza del ruolo della

razzializzazione nelle dinamiche ecologiche, economiche e sociali.

Questa modalità difensiva include impulsi di lotta, fuga o congelamento che possono bypassare le componenti razionali del cervello.

Il mito della fragilità bianca in alcuni contesti può aver giustificato l’impulso di dominio, controllo e sfruttamento perpetrato per secoli sui corpi le cui pelli sono di altri colori. Come corpi bianchi abbiamo probabilmente sentito che mantenere questa dinamica di potere fosse essenziale alla nostra sopravvivenza, l’abbiamo trasformata nella nostra normalità, un terreno apparentemente indolore, quasi invisibile agli occhi di chi non lo vuole vedere, ma pervasivo e talvolta letale per gli altri e le altre.

Una manifestazione della fragilità bianca può essere la confusione della sensazione di paura con la presenza reale di un pericolo in presenza di persone sconosciute di altre culture o scambiare lo stato di confort e comodità con la sensazione di essere al sicuro, quando evitiamo certi ambienti, persone o letture per non mettere in discussione alcun luogo comune…

Sono bruciati vivi come torce, mentre provavano a riscaldarsi. Annegati come animali stremati dalla sete, precipitando nei pozzi su cui si erano sporti nella speranza di trovare acqua. Sono stramazzati in terra, all’improvviso, come frutti maturi di un albero incolto, uccisi dalla fatica. Ad alcuni, il cuore è esploso, perché infartuato da eroina e antidepressivi somministrati come anestetico alla fatica.
Vivono accanto a noi. Nelle campagne del Piemonte, nelle vigne del Veneto. Nelle industrie lombarde. Nelle campagne a pochi chilometri da Roma. Nelle terre d’oro della Puglia. Quelle, ad esempio, di cui, qualche giorno fa, Chiara Ferragni ha postato una foto sui suoi social, mostrando un vassoio di panzerotti in mano. Non lontano da lì, Camara, 27 anni, era morto di troppo lavoro.
Li chiamano “lavoratori stagionali dell’agricoltura”. Sono donne e uomini italiani e stranieri. Hanno dai 18 ai 60 anni. Sono diversi tra loro. Eppure, tutti uguali. Con il loro lavoro ci danno da mangiare. E noi non riusciamo neppure a dargli da bere. Li paghiamo anche due euro per ogni ora di lavoro, con 40 gradi all’ombra, con la testa piegata verso terra dall’alba al tramonto. Ingrassano i guadagni della grande distribuzione. Di etichette di primo livello dell’agroalimentare. Di loro si sente spesso parlare in tavoli tecnici, protocolli. Accade che, ciclicamente, guadagnino un po’ di indignazione. Eppure, in questi anni, è cambiato poco. Quasi niente. Loro restano dei dannati.
” Questo stralcio è parte di un articolo pubblicato nel Luglio del 2021 da un quotidiano italiano nella versione on line. Di fianco al testo nella pagina apparivano le immagini di due persone dalle chiare origini africane: a sinistra una ragazza dalla pelle ambrata con gli occhiali da sole e un capo d’abbigliamento rosa che la renderebbe particolarmente sicura e sorridente, a destra un ragazzo nero vestito in modo “impeccabile” con le scarpe di un bianco immacolato e lo sguardo fiero… Il marchio dell’Adidas campeggia sotto al link blu con la scritta “acquista ora”. Quale raffinato disegno di marketing può associare la tragedia al fashion? Quali emozioni suscitate in noi che leggiamo l’articolo dovrebbero essere renderizzate in acquisto on line?

Cosa suscita in te tutto questo? Cosa si muove ora sotto la superficie dei flussi di pensiero? Il corpo è contratto in qualche parte, hai l’impulso di smettere di leggere, affiorano giudizi? Se questo accade verso chi sono rivolti? Sono diretti ad una persona, a un gruppo di persone, oppure ai loro comportamenti?

 

Se anche smettessimo di vedere razze, il razzismo non scomparirebbe…

E’ paradossale immaginare quanto sciocchi siano gli stereotipi discriminatori che ancora proiettiamo sui corpi dall’epidermide scura o nera: alla luce delle conoscenze paleoantropologiche che dal 1974 indicano con il nome di Lucy, in inglese, o Dinkinesh, in lingua Amharic (letteralmente “tu sei meravigliosa”) uno tra i più antichi rinvenimenti fossili di una delle nostre progenitrici comuni. Un’Austrolopiteca vissuta 3 milioni e 200 mila anni fa, una delle nostre antenate, che dall’Etiopia e il centro dell’Africa avrebbero popolato gran parte del pianeta e permesso l’espressione della meravigliosa diversità umana odierna.

Non basta smettere di vivere lo stigma di tali stereotipi e generalizzazioni, anche smantellando i vecchi condizionamenti cognitivi e culturali, permarrebbero comunque le asimetrie comportamentali legate agli impulsi somatici di dissociazione, lotta o fuga e la miseria delle disparità socioeconomiche.

Abbiamo bisogno di prendere consapevolezza delle dinamiche estrattiviste del capitalismo, quali territori ne siano straziati e quali ne traggono vantaggio perpetuando la cultura dei confini armati, dei fili spinati, dei campi di concentramento e delle espulsioni per proteggere un tenore di vita biocida e innaturale imposto come modello unico al resto del mondo.

Come esseri viventi non vi è alcuna area del pianeta alla quale non apparteniamo o nella quale dovremmo essere confinati per il bisogno di qualcuno di razzializzarci, recluderci, o sfruttarci.

Quello che viene chiamato “the greath othering”, additare gli altri come responsabili del “male”, è un fenomeno antico: viene drammaticamente rievocato oggi dai rancori tra fazioni digitalizzate contrapposte dalle limitazioni dei QR code, in cui riecheggiano vecchi strali in chiave postmoderna dell’antico motto “dividi et impera” degli antichi romani. Nei regimi democratici odierni vediamo come il meccanismo di creare l’altro da noi, il nemico esterno, sia che venga considerato alla stregua di terrorista religioso, invasore straniero, dissidente politico o untore pandemico, agisce da catalizzatore per trasformare in voti e consenso la rabbia e le paure della gente, spremuta questa, da un sistema basato sullo stress e la competizione, sterile di spazi pubblici dediti a relazioni autentiche necessarie per nutrire l’animo umano.

In questo senso una nuova cultura ha bisogno di non essere meramente teorica, ma integrale – un processo relazionale incarnato in ogni ambito dell’esperienza umana: decolonizzare, liberare i nostri corpi e i sistemi nervosi dalle sensazioni corporee, dalle emozioni sopraffacenti somatizzate, fino agli impulsi di sopravvivenza delle generazioni sopravvissute alla fame, le pandemie, le calamità naturali, le guerre e il potere coercitivo patriarcale degli ultimi secoli che chiamiamo “storia”.

Ad un certo punto di questo processo, probabilmente avremo a che fare con il terrore, la paura, l’odio e la furia intrappolati nei nostri sistemi nervosi dagli effetti epigenetici del trauma collettivo che è stato istituzionalizzato.

Necessitiamo di presenza, capacità di discernimento e condivisione plurale. Abbiamo bisogno di smantellare l’oppressione interiorizzata nei nostri corpi attraverso i gesti, gli sguardi, i sentimenti, i pensieri, le posture, riconoscendo dove possiamo aprire spazi di consapevolezza individuale e collettiva, incontro delle diversità, dialogo intergenerazionale, confronto ed eventualmente conflitto e riconciliazione.  

Abbiamo bisogno di comprendere quanto il trauma intergenerazionale permei il nostro organismo e il nostro immaginario: alcune zone del nostro cervello legate all’idea di un presente basato sull’equanimità, la cura e la condivisione dell’abbodanza che il pianeta e noi stessi come natura incarniamo, sono probabilmente inibite dagli effetti post traumatici dell’oppressione sistemica.    

Già dal Novecento numerosi studi indicano la componente somatica come fondamentale per individuare l’origine di schemi di sopravvivenza legati alle attuali forme di oppressione: essere consapevoli della risposta non verbale del nostro corpo in relazione ad altri corpi può fornire un luogo nuovo da cui vivere il mondo, uno spazio trasformativo del modo di percepire l’esperienza dell’altro da noi. Un modo diverso di entrare in relazione anche quando le strutture sociali attraverso le quali tale esperienza si plasma non sono ancora cambiate.

Necessitiamo sia di elaborazioni individuali, dei nostri sistemi nervosi, impulsi, emozioni, sogni e convinzioni, sia di trasformazioni radicali comunitarie, sistemiche ed istituzionali… Comprendendo, scusandoci autenticamente, perdonando e ponendo fine ai giochi di potere perpetratisi nella storia distorta, narrata dai dominatori per secoli, fino ai giorni odierni.

Se l’antica teoria dell’identità sociale affermava in sintesi che una persona cambia il suo comportamento mentre si trova in un gruppo e questo cambiamento è determinato sia dalle relazioni interpersonali singole che dall’interazione e il coinvolgimento con la cultura e i linguaggi dell’intero gruppo, oggi non possiamo immaginare altro, nel presente della globalizzazione delle merci e delle culture, che l’esistenza di un’ interrelazione continua non solo tra individui e gruppi di persone della nostra specie, ma anche tra ogni forma di vita ed elemento dell’ecosistema. Che questa relazione sia generativa…

E che il modo in cui siamo con gli altri e le altre (o non siamo in grado di esserlo), sia anche una questione legata al modo in cui viviamo il corpo, rispetto alla produzione sociale della differenza e alla nozione d’identità.

I cambiamenti climatici o le pandemie che ci coinvolgono non sono un affare personale, squarciano i muri di dissociazione ed indifferenza del passato, aprono una visione più ampia rispetto all’idea di vita individuale, lasciando solo macerie fumanti al posto dei vecchi paradigmi riduzionisti ego ed etnocentrici.

Se la realtà, come spiega la fisica più avanzata è veramente un campo di coscienza aperto e interrelato, non alimentiamo nessuna velleità di inclusione. Questa parola allude già in sè alla miseria di comunità fondate sulla divisione, la segregazione e il confinamento.

Nessun buonismo di facciata, nessun anelito progressista, nessuna aspettativa miracolistica rispetto ad emozioni sintetiche liberatorie o futuri digitali incorporei…

Oggi forse, l’unico privilegio sensato  potrebbe essere quello di poter ancora rimettere in gioco tutto: smantellare le antistrutture di potere oppressivo dentro e fuori di noi, attingere alle saggezze ancestrali sbocciate nei vari continenti insieme alle intelligenze organiche ereditate nei nostri corpi fieramente diversi.

Andiamo…

Verso cio’ che ancora forse non sappiamo bene, ma che insieme possiamo essere.

Il tempo di esplorare questa ineludibile possibilità, è ora.

 

Jerry Diamanti

www.equilibrinaturali.net

leviedolci@gmail.com

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